La mattina era fredda, come se l’autunno fosse arrivato in città senza avvisare. Matteo riempiva la valigia in un silenzio che feriva più di ogni urlo. Nessun litigio, nessun portello sbattuto, solo il fruscio dei maglioni piegati con cura, il click del caricatore staccato dalla presa, il cigolio dell’astuccio dello spazzolino. Si fermò alla finestra, osservando il cortile grigio di Bologna. Non per un addio, ma per imprimere nella memoria come la luce cadeva sul telaio scrostato, come l’ombra della vecchia tenda si allungava sul davanzale. Giulia dormiva. O fingeva. Probabilmente fingeva: il suo respiro era troppo regolare, come quello di chi ha paura di essere toccato.
In cucina accese il bollitore. Le mani non tremavano, ma dentro sembrava tutto in frantumi — come perline di vetro cadute da un filo spezzato. Non dolore, non rancore, solo quel silenzio diventato un peso impossibile da sollevare, che gli impediva di chiudere la valigia.
Non avevano litigato. Nessun tradimento. Nessuna voce alzata. Semplicemente, non erano più un’unica cosa. Ogni giorno, un granello alla volta, si erano allontanati senza accorgersi che tra loro si era scavato un vuoto dove risuonava solo l’eco del nulla.
«Quando parti?» chiese Giulia, apparsa sulla porta. La sua voce era calma, quasi indifferente, come se non stesse parlando di lui ma della valigia nell’angolo.
«Ora» rispose Matteo, senza alzare gli occhi. Sapeva che se l’avesse guardata, non avrebbe avuto la forza di andarsene.
Lei tacque. Lui non si voltò. In quel silenzio c’era tutto: «resta», «vai», «non ce la faccio più», «doveva andare diversamente». Rimase sospeso nell’aria, come l’ultimo filo che si poteva afferrare, ma nessuno dei due osò farlo.
Uscì, lasciando la chiave sul comodino vicino alla porta. Non si voltò, non esitò. Le scale odoravano di umido, di cene altrui e della solita confusione del mattino — da qualche parte una porta sbatté, da un’altra tintinnarono posate. Matteo scese come se stesse completando l’ultimo livello di un gioco conosciuto: senza errori, senza emozioni. Dentro era tutto vuoto, come dopo un trasloco — pulito, ma spaventosamente deserto.
Prima dormì da un amico, in un appartamento stretto in periferia. Poi affittò una stanza — piccola, con la vernice scrostata e un letto che cigolava a ogni movimento. Iniziò a correre la mattina, non perché gli piacesse, ma per riempire il vuoto con la fatica. Andava in un altro supermercato, dove nessuno lo riconosceva. Alzava il volume della musica anche quando non l’ascoltava, solo per non sentire il silenzio. Cercava nuovi percorsi, nuove abitudini, nuovi volti. Cambiava tutto quello che poteva. Ma il silenzio dentro non spariva. Ogni notte gli si sedeva accanto, fissava il buio e non lo lasciava andare.
Giulia era rimasta nell’appartamento. Con le loro tende, con i suoi libri sullo scaffale, con la sua tazza che nessuno aveva messo via. Lo scaffale in bagno era intatto, la foto sul frigo ancora lì. Erano diventati estranei — senza drammi, senza tradimenti. Solo perché non si erano detti la verità al momento giusto. Perché ognuno aspettava che fosse l’altro a fare il primo passo.
Passarono tre mesi.
Si incontrarono per caso — in farmacia, in un pomeriggio grigio, con la strada quasi deserta. Matteo comprava bende e antidolorifici. Giulia, sciroppo per la tosse e una pomata. I loro sguardi si incrociarono nello stesso istante, e entrambi si bloccarono, come se il tempo si fosse fermato.
«Ciao» disse lui, un po’ più piano di quanto volesse.
«Ciao» rispose lei, studiandolo attentamente. «Sei dimagrito.»
Lui scrollò le spalle. Voleva dire qualcosa di leggero: «Lavoro, corsa, non dormo». Ma tacque. Prese quello che gli serviva e uscì per primo, cercando di camminare lentamente, come se potesse cambiare qualcosa.
Due giorniDopo un istante di esitazione, Giulia allungò la mano e sfiorò la sua, mentre un autobus passava rumorosamente in strada, portando via l’ultima resistenza che li teneva lontani.