Luigi entrò nella stanza dove la moglie guardava una serie tv e annunciò con calma:
— Mio fratello ha chiamato. Dice che lui e Federica vogliono venire sabato. C’è da parlare.
— Magnifico! Sai che sono sempre felice di ospitare — sorrise Elena.
— Però ha aggiunto che sarà una conversazione seria — disse Luigi, guardandola con sospetto. — Solo noi due, senza i coniugi.
— Hai idea di cosa vogliano discutere? — Elena si irrigidì.
Luigi esitò, abbassò lo sguardo… e capì all’istante: si trattava dell’eredità.
Due mesi prima, Luigi ed Elena avevano ottenuto ufficialmente i diritti successori. La zia Livia, sorella maggiore della loro madre, non aveva figli e aveva vissuto da sola, una donna forte e indipendente. Quando la salute iniziò a vacillare, chiese aiuto ai nipoti. Solo Luigi ed Elena si presero cura di lei — la portarono dai medici, le comprarono la spesa, pagarono una badante, la accompagnarono in un centro termale. Gli altri parenti, al massimo, si ricordavano di mandare un biglietto a Natale.
Non sorprende che la zia Livia avesse lasciato tutto a loro: un bilocale nel centro di Milano e una graziosa casa di campagna ai margini della città.
Sabato. Federica e Alessandro arrivarono puntuali. Nessun sorriso, nessun preambolo. Si sedettero in salotto e andarono subito al sodo:
— Va bene, la zia vi ha lasciato l’appartamento. Ma la casa in campagna è troppo — esordì Alessandro.
— Noi l’abbiamo sempre curata! — aggiunse Federica. — Tagliavamo l’erba, annaffiavamo i fiori. Abbiamo passato tutte le estati lì con i bambini.
— Ma almeno una volta l’avete portata la zia in campagna? — chiese Elena con calma. — Avete mai esaudito una sua richiesta? Vi supplicava di portarla fuori città, per respirare aria fresca…
— Beh, noi abbiamo le nostre preoccupazioni. Bambini, lavoro… — borbottò Federica.
— Appunto. Per questo la zia ha fatto le sue scelte — disse piano Luigi.
— Voi l’avete manipolata! — sbottò Alessandro. — Che razza di uomo sei, se non sai dividere con la famiglia?!
— E tu, che uomo sei, se ti aggrappi a una casupola fatiscente? — ribattè Luigi, freddo e deciso.
Se ne andarono furiosi. Ma la mattina dopo suonò il telefono.
— Luigi, hai cambiato le serrature della casa in campagna?! — urlò Alessandro. — Siamo venuti io e Marco a prendere le nostre cose e non possiamo entrare!
— Le ho cambiate. Perché non avete avvisato. Venite sabato prossimo — faremo le pulizie. Prenderete ciò che vi appartiene — rispose Luigi, riagganciando.
— Lo sapevi, vero? — chiese, rivolto alla moglie.
— Non conosci i tuoi parenti? Se non avessi cambiato le serrature, ti avrebbero portato via pure i mobili. Non dubitarne.
Un mese dopo, vendettero sia la casa di campagna che il loro trilocale. Comprarono un ampio appartamento al mare — a Rimini. Un cortile accogliente, la scuola vicina, un lavoro trovato subito: Luigi fu assunto al porto, Elena in una scuola elementare.
La figlia, Vittoria, rimase a vivere nell’appartamento della zia, studiando all’università.
Sembrava che la vita si fosse sistemata. Ma da marzo iniziò un turbine di chiamate.
— La casa in campagna non c’è più — disse Federica al telefono. — Allora veniamo tutti da voi. A inizio luglio. Porteremo anche la nipote di Sandro!
— Prenotate un albergo — rispose Luigi tranquillo. — Noi qui viviamo, non siamo in vacanza. E non riceviamo ospiti.
— Ma i tuoi suoceri sono stati da voi a settembre! — protestò Federica.
— Perché sono i genitori di mia moglie. I miei li avremmo ospitati, se fossero ancora vivi. Ma per tutta la vostra combriccola non c’è spazio.
— Siete egoisti! — sbottò lei. — Ricorda, fratellino, se un giorno avrai bisogno di aiuto. La famiglia non ci sarà!
— In un anno è spuntata tanta famiglia da sembrare il giorno dopo la pioggia. E tutti si ricordano di noi solo da maggio a settembre. Non preoccuparti, ne abbiamo abbastanza — sorrise Luigi.
E riattaccò.
La lezione? Il sangue non rende nessuno degno di stare nella tua vita. La vera famiglia è chi si prende cura di te, non chi pretende qualcosa quando torna comodo.