**10 Ottobre**
Ero alla finestra e per la millesima volta ripensavo a cosa fosse successo. La sera prima, nella nostra casa era arrivata una corona funebre. Una vera, con un nastro nero. Sopra c’era il suo nome. Nessuna firma, nessun biglietto. Solo silenzio e un vuoto gelido dentro quella scatola.
Mio marito, Matteo, non aveva nemmeno battuto ciglio. Alzò le spalle con indifferenza:
«Forse è un errore? O uno scherzo di cattivo gusto…»
«Un errore? Dici sul serio?» — lo guardai come se non lo avessi mai visto prima.
Io sapevo da dove veniva. Sapevo che l’indirizzo era scritto con precisione. Sapevo chi fosse l’unica persona che da anni non la chiamava mai per nome, che l’aveva disprezzata in pubblico e in privato: la suocera.
Giovanna Bianchi credeva che suo figlio meritasse di meglio. Una donna dall’aspetto da top model, con un albero genealogico degno di un cane di razza, e possibilmente senza famiglia — «per non appesantirlo». E io? Una ragazza semplice, lavoratrice, un metro e cinquantacinque in piedi, cresciuta in una famiglia normale, che da piccola si cuciva i vestiti da sola. Ma amavo Matteo davvero.
Giovanna Bianchi, però, non cercava amore. Cercava controllo. E quando lo perdeva, si vendicava.
All’inizio sembrava tutto innocente. Frecciatine, rimproveri, consigli avvelenati. Poi iniziarono le intrusioni nella vita di casa, i «regali» dal doppio significato. Più tardi, la biancheria intima trovata nell’armadio. Come se io avessi qualcun altro. Come se, in un appartamento dove ogni ripiano era sotto controllo, potessi nascondere una cosa del genere.
Ma tutto veniva liquidato come una coincidenza. Persino quando trovai un serpente vivo nella frutta che ci aveva mandato, Matteo si strinse solo nelle spalle:
«E dai… C’è il bosco vicino, magari…»
Quel giorno mi chiusi in bagno e piansi. Non per la paura. Per la disperazione. Perché peggio dei serpenti erano le persone. Quelle che fingono di essere famiglia ma in realtà scavano lentamente nel cuore della tua vita.
Resistetti. A lungo. Fino al giorno in cui sorpresi Matteo con un’altra. Nella nostra stessa cucina. Sorridente, longilinea, elegante.
«È venuta lei da me!» — gridò, senza nemmeno vergognarsi.
Io non dissi una parola. Indicai solo la porta. E la scatola con la corona funebre, che non avevo mai buttato. Perché sapevo che certi messaggi non si gettano via. Sono come marchi a fuoco. Come il punto finale di un libro che non volevi finire.
Dopo il divorzio, mi trasferii. Lui rimase con sua madre. Poi una vicina mi chiamò:
«Lo sai che la tua ex suocera si è risposata? Con quello lì, il suo vecchio amico d’infanzia…»
Sorrisi. Non per cattiveria. Ma perché capii: il mio posto in quella famiglia l’avevano voluto occupare da tempo. Non per il figlio. Per lei.
Ora vivo in un altro appartamento. Guardo la corona — sì, è ancora qui — e sussurro:
«Grazie. Non è stata una maledizione. È stata la mia salvezza.»
**Lezione:** A volte, i segnali più oscuri ci portano alla luce. Basta saperli leggere.