Quando l’aria pesa

Fin dal mattino, nell’appartamento non regnava solo il silenzio, ma una quiete tesa, densa, come prima di un temporale. Non era la pace, bensì un’assenza di suono che faceva tremare le dita. Persino il bollitore fischiava con cautela, quasi temesse di rompere quel fragile confine oltre il quale iniziava una realtà diversa. Lucia era in piedi in cucina — a piedi nudi, coi capelli ancora umidi, indossando una vecchia maglietta grigia — e non ricordava il motivo per cui si fosse svegliata alle sette. Non aveva impostato la sveglia. Aveva semplicemente aperto gli occhi e capito: qualcosa era cambiato.

Sul tavolo c’era un biglietto. Senza busta, appoggiato tra una tazza di infuso di rosa canina mezzo bevuto e un pacchetto di cracker. Come se qualcuno l’avesse posato lì di sfuggita. La scrittura le era dolorosamente familiare — lineare, ordinata, senza svolazzi. Lo stesso modo in cui Marco firmava i biglietti di auguri: sobrio, ma con un calore sottile in ogni lettera.

«Lucia. Perdonami. Non ce l’ho fatta più. Non cercarmi. — M.»

Non lo toccò. Lo fissò soltanto. Per minuti. Forse un’ora. Come se quel pezzo di carta fosse una soglia, varcando la quale la sua vita sarebbe crollata. Poi accese la radio — il presentatore parlava vivacemente del traffico sulla tangenziale, come se niente fosse accaduto. Come se il mondo non avesse perso una persona. Quella che respirava accanto a lei ogni mattina.

Marco se n’era andato di notte. Ne era certa — non aveva sentito passi, né la porta chiudersi, né la serratura cigolare. Solo un attaccapanni vuoto in ingresso. La sua sciarpa — grigia, ruvida — era rimasta appesa. Non aveva preso nemmeno l’ombrello. Quello col manico di legno e il dettaglio rosso. Lucia lo osservò a lungo, come se potesse rispondere alle domande che non sapeva formulare.

Cercò di ricordare l’ultima volta in cui avevano parlato davvero. Non di immondizia o della lista della spesa, ma di cose importanti. Forse in aprile, su una panchina vicino al lago. Marco aveva mormorato: «Con te è difficile respirare». Lei aveva scherzato. Forse, in quel momento, lui stava già dicendo addio.

A pranzo, Lucia rivide vecchie foto. Loro due sull’autobus, in montagna, in campagna. La sua mano sulla sua spalla. Lui che la stringeva per la vita e sorrideva. Una volta, quelle immagini la scaldavano. Ora, dentro di sé, sentiva solo un’eco fredda e informe. Non piangeva nemmeno. E questo era la cosa più spaventosa. Come se i sentimenti si fossero consumati, lasciando solo un vuoto grigio e appiccicoso.

La sera chiamò Luca, un amico in comune. «Tutto bene?» chiese lui. Lucia rispose: «Sì. Solo un po’ stanca». Mentì senza esitazione. Senza sussulti. Come se avesse ripetuto quella frase per tutta la vita. Dopo la chiamata, rimase seduta al buio, ad ascoltare il rubinetto che gocciolava. Ogni goccia era un ticchettio.

Due giorni dopo, andò alla stazione Termini. Solo per osservare la gente. Chi partiva, chi tornava, chi si affrettava, salutava, abbracciava, piangeva, rideva. Tutti vivi. Tutti di corsa. Dentro di lei, invece, il silenzio era teso come una corda. Marco odiava le stazioni. Diceva: «Ti ricordano troppo che tutto è temporaneo». Non le sopportava neanche di sfuggita. Ma fu lì, davanti ai binari, che Lucia capì: non era uscito solo di casa. Era uscito dal loro “noi”. E forse non c’era modo di tornare indietro.

Al terzo giorno, prese l’ombrello. Lo mise vicino alla porta. Poi lo rimise a posto. Poi lo riprese. Come se quell’oggetto fosse un’ancora. Un promemoria che qualcosa poteva ancora restare. O forse — tornare.

Passarono due settimane. Il biglietto era ancora sul tavolo. A volte notava la polvere sopra e la soffiava via, come se temesse di cancellare le sue ultime parole. Altre volte le sembrava che la carta si scaldasse quando si avvicinava. Come se nell’inchiostro pulsasse qualcosa di vivo — un residuo d’amore, di speranza, o ciò che allora non aveva ascoltato.

Poi, una mattina — un colpo alla porta. Forte. Il postino. Un giorno qualunque, ma le dita tremano. Sul modulo di consegna: mittente, M. Bianchi.

Dentro, una lettera. E un biglietto. Il treno per Orvieto. La carta è sgualcita, come se fosse stata in tasca a lungo. In fondo, la firma:

«Se puoi, vieni. Se non vuoi, non ti trattengo. Dimmi solo. Non so fare altrimenti. Ma so ancora aspettare.»

Lucia si sedette per terra nel corridoio, con la schiena contro la porta. Il pavimento era gelido. Eppure, era il freddo più bello della sua vita. Perché era reale. Perché, se faceva male, voleva dire che era ancora viva. Non pianse. Rimase lì, gli occhi chiusi. Qualcosa si strinse nel petto. E quella stretta non era disperazione — era una possibilità.

A volte l’amore non va via. Si nasconde. Nelle cose vecchie, nei ricordi di un profumo, in un ombrello accanto alla porta, in una grafia familiare. E aspetta che tu riesca di nuovo a respirare. Senza paura. Senza rabbia. Solo — respirare.

Lucia arrivò alla stazione finale. Lui l’aspettava. Senza fiori. Senza scuse. Ma con gli occhi pieni di una sola cosa: luce.

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