Quando mio padre ci abbandonò, mia matrigna mi strappò dalle fauci infernali di un orfanotrofio.
Da piccolo, la mia vita era una fiaba radiosauna famiglia unita e piena damore, in una casetta un po storta sulle rive del Po, vicino alla piccola città di Sabbioneta. Eravamo in tre: io, mamma e papà. Laria profumava dei taralli appena sfornati da mamma, e la sera la voce profonda di papà raccontava le sue avventure sul fiume. Ma il destino è un cacciatore spietato, che colpisce quando meno te lo aspetti. Un giorno, mamma si ammalòil suo riso si spense, le mani le tremavano, e presto finì in un letto dospedale a Milano. Si consumò lentamente, lasciandoci in un mare di dolore. Papà si rifugiò nel vino, annegando lanima in bottiglie a buon mercato, e la nostra casa diventò una rovina, piena di bicchieri rotti e silenziosa disperazione.
La dispensa era vuota, muta testimone della nostra caduta. Andavo a scuola a Sabbioneta con i vestiti sporchi e lo stomaco che brontolava. Gli insegnanti si lamentavano dei compiti non fatti, ma come potevo studiare se lunica cosa a cui pensavo era sopravvivere alla giornata? I miei amici mi voltarono le spalle, i loro sussurri taglienti come coltelli, mentre i vicini osservavano la nostra miseria con sguardi di pietà. Alla fine, qualcuno chiamò i servizi sociali. Arrivarono funzionari severi, pronti a strapparmi dalle mani tremanti di papà. Lui crollò davanti a loro, supplicando tra i singhiozzi unultima possibilità. Gli concessero un mese fragileunancora di salvezza sullorlo del baratro.
Quella visita scosse papà. Andò al negozio, riportò cibo a casa, e insieme pulimmo tutto finché non brillò di un debole ricordo di calore. Giurò di smettere di bere, e nei suoi occhi intravidi tracce delluomo che era stato. Cominciai a credere nella guarigione. Una sera di tempesta, mentre il vento scuoteva le persiane, mi disse che voleva presentarmi qualcuno. Il mio cuore si gelòaveva già dimenticato mamma? Mi assicurò che lei era insostituibile, ma che quella persona ci avrebbe protetti dagli occhi inflessibili delle autorità.
Così entrò nella mia vita zia Clara.
Andammo alla sua casetta a Cremona, una dimora un po consumata vicino al fiume, circondata da querce nodose. Clara era un uraganocalda, ma con una forza indomabile, la sua voce unancora, il suo sguardo un faro. Aveva un figlio, Enzo, due anni più giovane di me, un ragazzo magrolino con una risata che scioglieva il ghiaccio. Ci intesi subito, corremmo per le strade, giochiamo sulla riva finché non ci mancò il fiato. Al ritorno dissi a papà che Clara era come un raggio di sole, e lui annuì in silenzio. Poche settimane dopo, lasciammo la vecchia vita sul Po, affittammo la casa a sconosciuti e mettemmo radici a Cremonaun disperato tentativo di ricominciare.
La vita si ricompose piano. Clara mi curò con un amore che suturava le mie feriterammendava i miei pantaloni strappati, cucinava minestre fumanti, e la sera stavamo insieme mentre le battute di Enzo rompevano il silenzio. Lui diventò mio fratello, non per sangue ma per dolore condivisolitigavamo, sognavamo, ci riconciliavamo con una lealtà che non aveva bisogno di parole. Ma la felicità è un ospite fugace, che il destino ama distruggere. Una mattina gelida, papà non tornò a casa. Una telefonata squarciò il silenzioera morto, schiacciato da un camion sulla strada ghiacciata. Il dolore mi divorò, una bestia feroce che mi rubava il respiro. I servizi sociali tornarono, freddi e inesorabili. Senza un tutore legale, mi strapparono dalle braccia di Clara e mi trascinarono in un orfanotrofio a Mantova.
Lorfanotrofio era una prigione di disperazionemura grigie, letti gelidi, pieni dei sospiri dei dimenticati. Il tempo strisciava, ogni minuto una frustata sullanima. Mi sentivo un fantasma, abbandonato e invisibile, tormentato da incubi di solitudine eterna. Ma Clara non si arrese. Ogni domenica veniva, carica di pane, sciarpe fatte a mano, e una determinazione incrollabile a riportarmi a casa. Combatté come una leonessatempestò uffici, riempì moduli, le sue lacrime macchiarono carte mentre lottava contro la burocrazia. I mesi passarono, e la disperazione mi rodeva; temevo di marcire in quel buco desolato. Ma una mattina la direttrice mi chiamò: «Fa le valigie. Tua madre è qui.»
Barcollai fuori e vidi Clara ed Enzo al cancello, i loro volti un faro di speranza e coraggio. Le gambe mi cedettero quando caddi tra le loro braccia, i singhiozzi mi strapparono la gola come una tempesta. «Mamma,» sussurrai, «grazie per avermi tirato fuori da questa tomba! Ti giuro, ne sarò degno!» In quel momento capiila famiglia non è solo sangue; è lanima che combatte per te fino allultimo respiro.
Tornai a Cremona, nella mia stanza, nella mia scuola. La vita trovò un ritmo più tranquillofinii gli studi, andai alluniversità a Milano, trovai lavoro. Enzo ed io rimanemmo inseparabili, il nostro legame una roccia nella tempesta. Crescemmo, fondammo nuove famiglie, ma Clarala nostra mammarimase la nostra ancora. Ogni domenica invadiamo la sua casa, dove ci vizia con polenta e brasato, il suo riso si mescola a quello delle nostre mogli, diventate sue migliori amiche. A volte, quando la guardo, sono sopraffatto dalla grazia di questo miracolo.
Sarò per sempre grato al destino per la mia seconda madre. Senza Clara, sarei finitoperso per strada o spezzato dal buio. Lei fu la mia luce nellombra più profonda, e non dimenticherò mai come mi salvò dallorlo dellabisso.





