Quarant’anni sotto l’ala: come un gattino bagnato diede inizio a una nuova vita
A Rosalia compì quarant’anni quando tutto improvvisamente cambiò. Viveva con i genitori in un ampio appartamento di quattro stanze a Firenze. Lavorava come avvocato in uno studio privato, la sera rientrava a casa — cena, una serie tv, rare chiacchiere con il padre sulla politica e con la madre sui vicini. Tutto sembrava perfetto, ordinato, tranquillo. Solo un dettaglio scombussolava quella costruzione impeccabile — la sua felicità non arrivava mai.
I genitori da anni le ripetevano: «Trova la tua felicità, Rosalia! Sistemati!» Poi, però, smontavano ogni pretendente pezzo per pezzo — uno era maleducato, un altro troppo timido, un altro ancora con un titolo di studio insufficiente. Tutto fatto con la tipica “amorevole premura” italiana — battutine, frecciate, sarcasmo. E Rosalia taceva. Perché li amava. Perché non voleva deluderli. Perché viveva come se fosse in una vita altrui, perfetta e lucidata a specchio.
Un giorno, tornando a casa in una sera d’autunno, notò un batuffolo fradicio davanti al portone. Un gattino. Piccolo, tremante, le orecchie appiccicate, le zampette sporche di fango. Occhi pieni di paura. Rosalia lo raccolse, se lo strinse al petto e lo portò in casa. Direttamente tra le braccia, sotto la pioggia, col cappotto ancora addosso. A casa gli versò del latte in una ciotola — il gattino si avventò come se non avesse mai mangiato in vita sua. I genitori si avvicinarono. Silenzio. Poi, come se si fosse rotto un argine.
Urlarono. Non parlarono — urlarono. Che avrebbe fatto i bisogni ovunque. Che avrebbe graffiato la carta da parati. Il divano — ridotto a brandelli. Che avrebbe portato puzza, pulci e sporcizia. Che avrebbe rovinato il parquet e trasformato l’appartamento in un ricovero. Il padre si teneva il cuore, la madre la testa. Le ordinarono di portare via quella “bestiola” immediatamente. O di abbandonarla in un gattile. Il padre trovò perfino l’indirizzo su internet e le porse il foglietto con aria trionfante. Poi, insieme, la spinsero letteralmente fuori dalla porta con la gabbietta in mano. Non senza averle infilato venti euro in palmo — «per il cibo».
Rosalia salì in macchina. Il gattino si rannicchiò contro di lei, si fece una pallina e si addormentò all’istante. Guardò fuori dal finestrino e nella sua mente esplose un pensiero: «Ho quarant’anni. E non ho nulla. Niente di mio. Neanche una stanza. Tutto è dei miei genitori. Io sono solo un’ospite in questa vita». Le lacrime la soffocavano, una voce dentro la supplicava: «Fai qualcosa, qualsiasi cosa». Rosalia prese il tablet — trovò un annuncio. Un monolocale, vicino all’ufficio, affitto a lungo termine. Chiamò. Si accordò. Si recò sul posto. Versò la caparra. Prese le chiavi. Andò lì — non al gattile.
Rosalia tirò fuori il gattino — ora si chiamava Birillo — e lo adagiò su un cuscino. Si sedette accanto a lui. E per la prima volta dopo anni sentì: sono a casa. Non nell’appartamento dei genitori. Non in un salotto perfetto. Ma nel suo spazio. Piccolo, estraneo, in affitto — ma suo. Nessuno le chiedeva con chi usciva, dove andava, perché tornava tardi. L’importante era pagare l’affitto. E lei lo pagava. Volentieri.
Poi accadde ciò che non si aspettava. Davanti al portone, durante una passeggiata con Birillo al guinzaglio, inciampò in un uomo. Enrico. Elettricista, gentile, semplice, con un viso aperto e occhi tranquilli. Parola dopo parola — una conversazione. Conversazione che diventò un caffè. Il caffè si trasformò in lunghe serate. E tutto scorreva, senza sarcasmo, senza analisi, senza pretese.
Ai genitori telefonava. Diceva che stava bene. E quando ricominciavano a gridare — riattaccava. Forse un giorno si sarebbero visti più spesso. Forse avrebbero capito. O forse no. L’importante era che ora Rosalia aveva una vita. Con Birillo, ormai un gatto sfrontato, con Enrico, con nuove abitudini, con silenzio e libertà. E tutto era cominciato in una fredda serata e con un gattino salvato.
A volte la vita inizia proprio così. Con una goccia di pietà. Per gli altri. Per sé stessi. E con un primo passo — da dove si soffoca, verso dove si respira.