*Quasi bene, ma solo quasi*
— Ancora in ritardo? — La voce di Matteo al telefono sembrava provenire non dall’appartamento accanto nel palazzo di Milano, ma dall’altra riva del fiume autunnale, dove l’oscurità avanzava e la nebbia si posava sull’acqua.
— Sì, fino alle dieci, forse più tardi. Controllo documenti, la logistica ha fatto di nuovo disastri — rispose Giulia, attivando il vivavoce mentre mescolava il caffè e finiva una mail ai fornitori. Accanto a lei, una pila di fogli stampati neppure aperti.
— Non sei quasi mai a casa — disse lui dopo una lunga pausa. Senza rabbia, senza rancore, solo constatando un fatto. Ma in quella calma c’era una stanchezza. Non per lei, non per la loro relazione, ma per la sua eterna assenza. Per le serate in silenzio, per i mattini vuoti.
— Lo sai com’è.
— Lo so — un’altra pausa. Non morta, però. Tesa, densa, come prima di un temporale. In quel silenzio si sentiva troppo: emozioni trattenute, domande mute, un’attesa inquieta.
Giulia odiava quelle pause. Sembrava che qualcuno le stringesse lentamente il petto. Il silenzio tra loro era sempre carico—non di suoni, ma di dolore.
Tornò a casa verso mezzanotte. Nessuna luce, solo una striscia fioca dalla lucina nel corridoio—Matteo la lasciava sempre accesa, «per non farti inciampare». In quella penombra, sul pavimento, un calzino sparato—di certo non suo. In cucina, un biglietto: *«Cena nel forno. Sono andato a letto».* La calligrafia un po’ incerta, come scritta di fretta, o per nervosismo.
Mangiò in silenzio, il cibo era tiepido, coperto con cura dalla stagnola. Ma non sentiva il sapore—come se il suo corpo fosse troppo stanco per percepire. Poi aprì il laptop, controllò un report, lo scorse—e lo richiuse subito. Bagno, lavarsi il viso, evitare lo specchio—perché il riflesso era stufo di guardarla. Si sdraiò accanto a lui. Dormiva. Di spalle. Tra loro, uno spazio. Un po’ più ampio del solito. O forse le sembrava solo così?
La mattina iniziò con il traffico, un tacco rotto e i documenti dimenticati. Sul tram, si sedette accanto a una donna sui quaranta che al telefono si lamentava con un’amica:
— È tornato all’alba, puzzava di sigarette, muto come un pesce. E io, stupida, l’aspettavo…
Giulia trasalì. Come se avesse sentito il proprio pensiero—ma al contrario. Quella donna aspettava nonostante tutto. Lei invece viveva con Matteo fianco a fianco, ma come se fossero in due mondi separati.
In ufficio, nessuno notò che era arrivata prima. Nessuno se ne sarebbe accorto, se non per il report consegnato. Il capo annuì, borbottò: *«Bene»*, e tornò a fissare lo schermo. Tutto seguiva lo schema: report, cenno, silenzio. Persino il ringraziamento sembrava un ordine.
Giulia andò in cucina, si preparò un tè. Guardò la bustina affondare nell’acqua bollente, lasciando una scia pallida. E le parve l’unico movimento vero della giornata. Tutto il resto era meccanico. Report, report, report. Tutto preciso, puntuale, corretto. Ma come se fosse nella direzione sbagliata. Movimento per spuntare una lista. Per *«funzionare»*, non per *«vivere»*.
Quella sera cenarono insieme. In silenzio. Le forchette tintinnavano sui piatti, il frigo ronzava—solo rumore di fondo. Matteo non la guardava, fissava il tavolo. Poi, all’improvviso:
— Stasera sei libera?
— Sì, credo di sì.
— Vogliamo andare al cinema?
Annui. Non subito. Dentro di sé, il desiderio di restare a casa e una strana malinconia che la spingeva—uscire, respirare, sentire qualcosa. Poi gli si avvicinò, lo abbracciò da dietro. Era caldo. Reale. Come un’ancora nella sua tempesta.
— Scusami — sussurrò. — Cerco di tenere tutto insieme: lavoro, casa, noi… Perché non crolli.
— Lo so — disse lui. — Ma bisogna vivere, non solo tenere insieme. Non siamo guardiani di mobili.
Non rispose. Lo strinse più forte, poggiò la guancia sulla sua schiena. E in quel silenzio, per un attimo, si sentì più leggera.
Andarono al cinema. Qualcosa di rumoroso e frivolo—i ragazzi in sala ridevano, qualcuno sgranocchiava popcorn. Loro sedevano accanto. Si tenevano per mano. E in quel semplice gesto c’era più di dieci confessioni.
Fuori era tiepido. Il vento primaverile sollevava polvere lungo la strada, i lampioni illuminavano l’asfalto bagnato. Da qualche parte, un bambino rideva, una coppia si abbracciava davanti a una farmacia. Matteo raccontava di un vecchio amico, di un incontro casuale, di sciocchezze. E Giulia ascoltava, realizzando all’improvviso: le mancava proprio questo. Il semplice. Il normale. Il vero.
Davanti al portone, si fermò.
— Sai… Per me è tutto quasi a posto. Quasi — disse piano.
Lui la guardò, attento. Senza sorpresa. Come se l’avesse aspettata.
— Allora facciamo che sia davvero a posto. Non subito. Ma insieme.
Annui. E per la prima volta da tanto tempo, dentro di lei non si strinse nulla. Si sciolse. E non voleva solo arrivare al mattino. Voleva svegliarsi e vivere.