Quel Giorno Indimenticabile

Quel giorno

Tutto cominciò con Federica che dormì fino a tardi. Non di mezz’ora, no: aprì gli occhi alle nove e quarantacinque, quando di solito alle otto era già alla fermata del bus con la sua tazza di caffè e lo sguardo annebbiato. Il cuore le fece un tuffo nello stomaco, come se qualcuno avesse tirato via il tappeto della sua routine. Il telefono era scarico: il cavetto, maledizione, si era staccato durante la notte. Dal rubinetto non usciva una goccia d’acqua: manutenzione programmata, ovviamente lei se n’era dimenticata. In cucina, un fracasso: la sua tazza preferita, quella con scritto «Non mollare», era caduta e si era frantumata. Restavano solo cocci e silenzio.

Quel silenzio pesante, denso, che ti fa fischiare le orecchie. Quando la casa non respira, ma sospira. E anche tu sospiri, non per sollievo, ma perché non riesci più a trattenerti.

In ufficio, ovviamente, Federica arrivò in ritardo. Entrò coi capelli arruffati, senza un filo di trucco e con la manica del cappotto macchiata. I colleghi la guardarono. Qualcuno sbuffò, qualcuno distolse lo sguardo, fingendosi occupato. La capa sospirò con un’espressione che sembrava dire: «Ecco, Federica ha rovinato di nuovo l’universo». E la giornata andò a rotoli, come un maglione sfilacciato dopo che qualcuno ha tirato il filo.

Federica non si giustificò né si lamentò. Si sedette al pc e aprì la cartella del progetto. Ma dentro di lei bruciava una fastidiosa impotenza, come una maglietta troppo stretta che devi indossare per forza, ma che ti soffoca. Le sembrava che il mondo le sussurrasse: «Non dovrebbe essere così. Lo sai bene».

Dopo pranzo, la chiamarono dalla scuola: suo figlio aveva litigato con l’insegnante. Minacciavano di convocare la commissione, volevano una lettera di scuse, parlava di provvedimenti. Poi arrivò l’sms della banca: la carta era in rosso, l’ultimo pagamento non era andato a buon fine. E infine, il messaggio della vicina con una foto: «È colpa tua questo?» Sul soffitto si allargava una macchia, come una ferita che lentamente contaminava la sua vita.

Alla sera, Federica era seduta sui gradini freddi del palazzo. Le calze si erano appiccicate alle gambe, le dita erano gelate. Le spalle curve, la borsa aperta come un’anima sfinita. La giornata non era stata solo un disastro: era stata una prova di resistenza, come premere su un livido con le dita.

Ed ecco che si fermò accanto a lei una bambina. Piccola, magrolina, con uno zaino enorme e gli occhiali storti.

«Signora, sta male?»

Federica alzò lo sguardo. Avrebbe voluto ignorarla, ma non ci riuscì. La domanda era sincera, semplice. Senza giudizio.

«Sì, sto male», ammise.

La bambina si sedette. Tirò fuori dallo zaino una mela, un po’ ammaccata ma pulita. Gliela porse con entrambe le mani.

«La mamma dice che se qualcuno sta male, bisogna condividere. Anche se è poco. Anche se è una mela.»

Federica la prese. Addentò. Dolce, con un tocco di acidulo. Il profumo le ricordò l’inizio di settembre e il primo giorno di scuola. Dentro di lei, qualcosa si sciolse. Non il dolore, ma il rumore. Si placò.

«Grazie. Come ti chiami?»

«Beatrice. E lei?»

«Federica.»

«Non si preoccupi, Federica. Andrà tutto bene. È solo un brutto momento.»

Federica annuì. Appena accennato, ma con un barlume di sorriso.

La bambina si alzò, sistemò lo zaino e se ne andò. Senza voltarsi. Camminava spedita, come se sapesse di aver fatto ciò che andava fatto. Federica la guardò allontanarsi. Nel petto, all’improvviso, si accese una strana sensazione. Come se qualcuno avesse acceso un lumicino dentro di lei.

Si alzò. Tornò a casa. Si tolse il cappotto. Chiamò suo figlio. Non per sgridarlo, ma solo per chiedergli come stava. Gli chiese scusa, senza nemmeno sapere perché. Voleva solo dire qualcosa di gentile per prima.

Poi riempì la ciotola del gatto. Spazzò il pavimento. Raccolse i cocci della tazza. Azioni semplici, ma per la prima volta in quel giorno, fatte con un senso.

La mattina dopo, Federica si comprò una tazza nuova. Rossa. Brillante, come una promessa. E una sveglia meccanica, con un ticchettio leggero che sembrava sussurrarle: «Sei viva. Il tempo passa, e tu con lui.»

A volte tutto crolla senza rumore, come un filo che si sbroglia. Poi, però, si ricompone. Non con le stesse mani, né con gli stessi pezzi. Ma si ricompone. Con una mela. Con la voce di una bambina. Con il momento in cui decidi: basta. È ora di respirare.

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