**Quel Giorno**
Tutto è iniziato con Stefania che ha dormito troppo. Non di mezz’ora, no: ha aperto gli occhi alle dieci meno un quarto, quando di solito già alle otto era alla fermata con la sua tazza termica e uno sguardo assonnato. Il cuore le è sprofondato in un attimo, come se qualcuno avesse strappato via le fondamenta della sua routine. Il telefono era scarico—il cavo, come per sfortuna, si era staccato dalla presa durante la notte. Niente acqua dal rubinetto: un intervento programmato di cui, ovviamente, si era dimenticata. In cucina, un tonfo, un tintinnio: la sua tazza preferita, quella con la scritta *”Non mollare”*, si era rotta. Restavano solo cocci e silenzio.
Quel silenzio denso, pesante, che ti fa fischiare le orecchie. Quando la casa non fa rumore, ma espira. E anche tu espiri—non per sollievo, ma perché non riesci più a trattenerlo dentro.
Al lavoro, ovviamente, Stefania è arrivata in ritardo. È entrata in ufficio con i capelli arruffati, senza nemmeno un filo di trucco e una manica del cappotto macchiata. I colleghi hanno sbirciato. Qualcuno ha sogghignato, qualcun altro ha distolto lo sguardo, fingendosi occupato. La capa ha sospirato con un’espressione che sembrava dire: *”Eccoci di nuovo, Stefania che delude il mondo intero”*. E la giornata è andata di male in peggio—come se qualcuno avesse tirato un filo e tutto si fosse sfasciato.
Stefania non si è giustificata, né si è lamentata. Si è seduta al computer e ha aperto la cartella che serviva. Ma dentro si sentiva in gabbia, come la pelle sotto una maglietta troppo stretta: necessaria, ma intollerabile. Pareva che il mondo le sussurrasse: *”Non dovrebbe essere così. Lo sai.”*
Dopo pranzo, la chiamata dalla scuola: suo figlio, Matteo, aveva litigato con la professoressa. Minacciavano una riunione disciplinare, volevano una lettera di spiegazioni, si parlava di sanzioni. Poi, un messaggio della banca: la carta era in rosso, l’ultimo pagamento non era andato a buon fine. E subito dopo, un altro messaggio—questa volta della vicina, con una foto: *”È da te che perde?”* Sul soffitto, una macchia come una ferita che si allargava lentamente sulla pelle della sua vita.
Alla sera, Stefania era seduta sui gradini freddi del palazzo. Le calze aderivano alle gambe, le dita erano gelate. Le spalle curve, la borsa aperta come un’anima stanca. La giornata non era stata solo difficile—era stata una prova, come un dito che preme su un livido.
Poi, una bambina si è fermata accanto a lei. Piccola, magrolina, con uno zaino enorme e gli occhiali storti.
*”Signora, sta male?”*
Stefania ha alzato lo sguardo. Voleva ignorarla, ma non ci è riuscita. La domanda era fatta con sincerità, senza giudizio.
*”Sì, un po’,”* ha ammesso.
La bambina si è seduta. Ha tirato fuori dallo zaino una mela, un po’ ammaccata ma pulita, e gliel’ha offerta con le due mani.
*”Mia mamma dice che se qualcuno soffre, bisogna condividere. Anche se è poco. Anche se è una mela.”*
Stefania l’ha presa. Ne ha addentato un pezzo. Dolce, con un po’ di acidulo. Il profumo le ha ricordato l’inizio di settembre e le file fuori dalla scuola. Nel petto, qualcosa si è allentato. Non il dolore—solo il rumore. È svanito.
*”Grazie. Come ti chiami?”*
*”Aurora. E lei?”*
*”Stefania.”*
*”Non si preoccupi, Stefania. Andrà tutto bene. È solo un brutto momento.”*
Stefania ha annuito, quasi sorridendo.
Aurora si è alzata, ha sistemato lo zaino ed è andata via. Senza voltarsi. Camminava spedita, come se sapesse di aver fatto la cosa giusta. Stefania l’ha guardata allontanarsi. Qualcosa nel petto le si è acceso, come una piccola fiamma.
Si è alzata. È tornata in casa. Si è tolta il cappotto. Ha chiamato Matteo. Non per sgridarlo, ma solo per chiedergli come stava. Gli ha detto *”scusa”*, senza nemmeno sapere perché. Voleva solo dirgli qualcosa di gentile, per prima.
Poi ha riempito la ciotola del gatto, Pulce. Ha spazzato il pavimento. Ha raccolto i cocci della tazza. Movimenti semplici, ma per la prima volta quel giorno—pieni di senso.
Il mattino dopo, Stefania si è comprata una tazza nuova. Rossa. Vivace, come una promessa. E una sveglia meccanica—con un ticchettio lieve, come un sussurro: *”Sei viva. Il tempo passa, e tu con lui.”*
A volte tutto crolla in silenzio, lungo le cuciture. E poi—si ricompone. Non con le stesse mani, non con gli stessi pezzi. Ma si ricompone. Con una mela. Con la voce di una bambina. Con il momento in cui decidi: basta. È ora di respirare.