Quel giorno, una donna che non vedevo da almeno cinque anni si presentò alla mia porta. Tamara Nardini. A Borgo Seraio, la chiamavano “la Generale” dietro le spalle. Non per un marito militare, no, ma per il suo portamento regale, quello sguardo tagliente come una lama, e quellorgoglio che avrebbe potuto circondare il nostro paesino tre volte come un muro. Camminava sempre a schiena dritta, il mento alto, come se non calcasse la poltiglia del nostro villaggio, ma i pavimenti di un palazzo. E non si confidava con nessuno, al massimo un cenno della testa e basta.
Eppure, eccola lì, sulla soglia del mio ambulatorio. Irriconoscibile. La schiena ancora dritta per abitudine, ma negli occhi una disperazione feroce. Si era tirata il fazzoletto colorato fin sopra le sopracciglia, come per nascondersi. Tentennava, incapace di varcare la soglia.
“Avanti, Nardini,” le dico gentilmente. “Non è il caso di fare corrente. Vedo che non sei venuta per unaspirina.”
Entrò, si sedette sulla sedia vicino alla stufa, le mani appoggiate sulle ginocchia. Mani che erano sempre state curate, ma ora le vedevo screpolate, le dita che tremavano lievemente. Tacque. E io non la pressai. Le versai del tè, alla menta e tiglio. Glielo posi davanti.
“Bevi,” dissi. “Ti scalderà lanima.”
Prese la tazza, e negli occhi le brillarono lacrime. Non le lasciò cadere, no, lorgoglio glielo impediva, ma rimasero lì, come acqua in un pozzo.
“Sono completamente sola, Sancassani,” sussurrò alla fine, con una voce che non le apparteneva, spezzata. “Non ce la faccio più. Mi sono slogata un polso, per fortuna niente di rotto, ma il male è tale che non posso nemmeno prendere la legna o lacqua. E la schiena mi duole così che non riesco neanche a respirare.”
E iniziò a parlare, un fiume di parole amare e confuse. Io ascoltavo, annuivo, ma nella mente rivedevo non la sua miseria presente, ma ciò che era successo cinque anni prima. Ricordavo come nella sua casa, la più ordinata del paese, risuonassero le risate. Suo figlio, lunico, Riccardo, bello e lavoratore, aveva portato a casa la fidanzata. Livia.
Una ragazza dolce come un angelo. Riccardo laveva conosciuta in città. Occhi chiari, fiduciosi. Capelli biondi raccolti in una treccia spessa. Mani abituate al lavoro, nonostante fossero delicate. Era evidente perché Riccardo se ne fosse innamorato. Ma perché Tamara lavesse presa di mira, nessuno lo capiva.
Eppure, dal primo giorno, Nardini laveva tormentata. Non si sedeva come si deve, non guardava come si deve. Il minestrone non era abbastanza rosso, i pavimenti non abbastanza puliti. Preparava la marmellata: “Hai sprecato troppo zucchero, sciupona!” Zappava lorto: “Hai strappato tutte le ortiche per la minestra, incapace!”
Allinizio Riccardo la difendeva, poi si arrese. Era un mammone, cresciuto sotto la sua ala. Oscillava tra loro come una foglia al vento. E Livia taceva. Ma ogni giorno dimagriva, impallidiva. Una volta la incontrai al pozzo, e vidi che aveva gli occhi lucidi.
“Ma perché sopporti, piccola?” le chiesi.
E lei mi sorrise, amara:
“Dove potrei andare, zia Clara? Lo amo. Forse si abituerà a me, avrà pietà”
Non ebbe pietà. Lultima goccia fu una tovaglia ricamata, fatta dalla madre di Tamara. Livia laveva lavata con troppa forza, e i colori erano sbiaditi. Oh, che scandalo Si sentirono le urla in tutta la via.
Quella stessa notte, Livia se ne andò. Senza rumore, senza addii. Riccardo, al mattino, impazzì. La cercò ovunque, poi tornò da sua madre, gli occhi secchi, terribili.
“Sei stata tu, mamma,” disse soltanto. “Hai ucciso la mia felicità.”
E partì anche lui. Si sparse la voce che avesse trovato Livia in città, che si fossero sposati, che avessero avuto una bambina. Ma alla madre, mai una visita. Né una lettera, né una telefonata. Come se lavesse tagliata fuori.
Tamara allinizio fece la forte. “Meglio così,” diceva alle vicine. “Non mi serve una nuora del genere, e un figlio che mi tradisce per una gonnella non è un figlio.” Ma invecchiò allimprovviso, si consumò. Nella sua casa perfetta, pulita come una sala operatoria, rimase sola. E ora, seduta davanti a me, tutto il suo orgoglio, tutta la sua regalità, era caduta come la buccia di una cipolla. Restava solo una donna vecchia, malata, abbandonata. Il boomerang non vola per crudeltà, ma torna sempre a chi lo ha lanciato.
“Non servo a nessuno, Sancassani,” sussurrò, mentre una lacrima, la prima, le scendeva lungo la guancia. “Meglio impiccarmi.”
“Non dire bestemmie, Nardini,” risposi severa, anche se la pietà mi strozzava. “La vita è per viverla, non per buttarla via. Dai, ti faccio uniniezione, ti passerà il male.”
Le feci liniezione, le massaggiai la schiena con un unguento profumato. Si rianimò un po, raddrizzò le spalle.
“Grazie, Sancassani,” disse. “Non credevo che qualcuno potesse ancora essere gentile con me.”
Se ne andò, e il mio cuore si appesantì. Posso curare le malattie, ma ce nè una per cui non esistono medicine. Si chiama solitudine. E lunica cura è unaltra persona.
Passai giorni tormentata. Poi trovai, tramite conoscenti, il numero di Riccardo. Le mani mi tremavano mentre componevo. Cosa gli avrei detto? Come iniziare? Rispose, la voce più matura, un po roca.
“Riccardo, buongiorno. Sono Sancassani, di Borgo Seraio. Ti disturbo?”
Restò in silenzio per mezzo minuto. Pensai avesse riattaccato.
“Buongiorno, zia Clara,” disse infine. “È successo qualcosa?”
“Sì, figliolo. Tua madre è sola. Sta male, ma non lo ammette. Sai comè, orgogliosa”
Di nuovo silenzio. Sentii sua moglie, Livia, chiedergli qualcosa a bassa voce. Poi la sua voce, ancora dolce, ma ferma:
“Dammi, parlo io.”
“Buongiorno, zia Clara! Come sta? È grave?”
Le raccontai tutto. Senza nascondere nulla. Del polso, della schiena, delle lacrime represse. Livia ascoltò senza interrompere.
“Grazie per averci chiamato,” disse decisa. “Verremo. Sabato prossimo. Ma non dirglielo, per favore. Sarà una sorpresa.”
Pensai: che cuore ha questa ragazza. Lavevano cacciata, umiliata, eppure non serbava rancore. Solo pietà. È una forza tremenda, la pietà. Più forte dellodio.
E arrivò il sabato. Una giornata grigia, umida. Andai da Tamara al mattino per misurarle la pressione. Era seduta alla finestra, fissava il vu