Quella notte cacciai mio figlio e mia nuora e presi loro le chiavi: era arrivato il momento in cui capii che ne avevo abbastanza.
È passata una settimana e ancora non mi sembra vero. Ho mandato via mio figlio e sua moglie. E sapete una cosa? Non mi sento in colpa. Nemmeno un po’. Perché era il limite, loro mi hanno spinta a farlo.
Tutto è iniziato sei mesi fa. Tornavo a casa dal lavoro, stanca morta, sognando una tazza di tè e un po’ di pace. E cosa trovo? In cucina, mio figlio Marco e sua moglie Cecilia. Lei taglia il salame, lui legge il giornale e, come se niente fosse, mi sorridono:
“Ciao, mamma! Siamo venuti a farti visita!”
A prima vista, niente di male. Sono sempre felice quando Marco passa a trovarmi. Ma poi ho capito: non era una visita. Era un trasloco. Senza preavviso, senza chiedere. Si sono semplicemente piazzati nel mio appartamento e sono rimasti.
A quanto pare, li hanno sfrattati dall’affitto perché non pagavano da sei mesi. Io gliel’avevo detto: non vivete oltre le vostre possibilità! Prendete qualcosa di più modesto, fate economia. Ma no. Loro volevano il centro, il ristrutturato, il balcone con vista. E quando è andato tutto in malora, di corsa dalla mamma.
“Mamma, sarà solo una settimana. Te lo prometto, sto cercando casa,” mi assicurava Marco.
Io, come una sciocca, ci ho creduto. Pensai: beh, una settimana non è la fine del mondo. Siamo famiglia. Bisogna aiutarsi. Se avessi saputo come sarebbe finita…
Passò una settimana. Poi due. Poi tre mesi. Nessuno cercava un alloggio. Ma loro si erano subito ambientati. Vivevano come se fosse casa loro: niente richieste, niente pareri, niente aiuto. E Cecilia… Dio, che errore avevo fatto con lei.
Non cucinava, non puliva. Passava le giornate con le amiche, e se rimaneva a casa, stesa sul divano col telefono. Io tornavo dal lavoro, preparavo la cena, lavavo i piatti, e lei se ne stava lì come in un albergo. Non si sciacquava neanche una tazza.
Una volta le feci notare delicatamente: magari potreste cercare un lavoretto? Vi aiuterebbe. E la risposta fu immediata:
“Sappiamo noi come vivere. Grazie per la premura.”
Li ho mantenuti, pagavo bollette di acqua, luce e gas. Loro non davano un centesimo. E perfino organizzavano scenate se qualcosa non andava come volevano. Ogni mia osservazione sfociava in un dramma.
E poi, una settimana fa. Tarda sera. Ero a letto e non riuscivo a dormire. Nella stanza accanto la TV a tutto volume, Marco e Cecilia ridevano e chiacchieravano. E io dovevo alzarmi alle sei. Sono andata da loro:
“Ragazzi, avete intenzione di andare a dormire? Io domani lavoro presto!”
“Mamma, non cominciare,” disse Marco.
“Madonna Santa, basta isterismi,” aggiunse Cecilia, senza neanche girarsi.
E allora qualcosa in me si è rotto.
“Fate le valigie. Domani non ci siete più.”
“Cosa?”
“Avete sentito. Preparatevi. O inizio io a farlo.”
Mentre mi voltavo per tornare in camera, Cecilia sbuffò. E quello fu l’errore. Ho preso tre borse grandi e ho iniziato a riempirle con le loro cose. Cercavano di fermarmi, supplicavano, ma era troppo tardi.
“O ve ne andate ora, o chiamo i carabinieri.”
Mezz’ora dopo, le loro cose erano nel corridoio. Ho preso le chiavi. Niente lacrime, nessun rimorso. Solo irritazione e rimproveri. Ma ormai niente mi toccava più. Ho chiuso la porta. Ho dato la chiave. E mi sono seduta. Per la prima volta in sei mesi, c’era silenzio.
Dove siano andati, non lo so. Cecilia ha i genitori, un sacco di amiche, sicuramente troveranno un divano. Di certo non moriranno.
Non mi pento. Ho fatto la cosa giusta. Perché questa è casa mia. La mia roccaforte. E non lascerò che la calpestino con stivali sporchi. Nemmeno se è mio figlio.