Realizzazione tardiva: il dilemma della corda e dello sgabello

**Il Sogno di Matteo**

Matteo capì troppo tardi che era in piedi su uno sgabello con una corda in mano, e che le sue intenzioni potevano essere fraintese.

Era seduto sul letto in mutande, i piedi penzolanti. Gli sembrò di nuovo di sentire la voce di sua madre.

“Matteo, figlio mio… Matteo…”

Quasi ogni notte si svegliava per quell’eco. Sapeva che non poteva essere lei, perché tre settimane prima era morta. Eppure si alzava, ascoltava, aspettava.

Gli ultimi sei mesi, lei non si era più alzata. Matteo lavorava da casa per starle vicino. Aveva provato ad assumere una badante, ma dopo tre giorni era scappata, portandosi via i soldi e i gioielli d’oro di sua madre. Non ci aveva riprovato.

Mentre lavorava al computer, tendeva l’orecchio, pronto a correre al minimo richiamo. Era così stanco che a volte si addormentava davanti allo schermo. Quella notte, si era svegliato di colpo al suono della sua voce, era corso nella sua stanza. Ma lei non respirava più. Aveva pianto, chiedendole perdono per quel senso di sollievo mescolato al dolore. Era finita. Finalmente libero.

Eppure, dopo tre settimane sole, non provava gioia, solo un vuoto pesante.

Lei era sempre stata allegra, giovane dentro. Canticchiava mentre stirava o puliva. Sembrava eterna. Matteo non avrebbe mai immaginato che sarebbe morta così, lentamente, soffrendo.

Non aveva più sonno. Guardò l’orologio: le sei e mezza. Fuori, la nebbia autunnale stagnava, grigia e immobile. Era riuscita a infiltrarsi anche nella stanza, cancellando ogni colore. Silenzio, vuoto, penombra.

Gli sembrava di essere diventato grigio anche lui, come un fantasma. Si vestì e si avvicinò alla porta della sua camera. Ci era entrato solo una volta dopo la sua morte, per sceglierle un vestito. Aprì di scatto. L’odore gli assalì le narici: medicine, urina, il corpo consumato dalla malattia. Senza guardare il letto vuoto, andò alla finestra, scostò la tenda e la spalancò.

Una folata d’aria fresca e umida irruppe, portando con sé il rumore della città che si svegliava. Stranamente, la stanza riprese vita, i colori si fecero vividi. Matteo sentì un’ondata d’energia. Strappò le lenzuola dal letto, evitando di respirare la polvere invisibile, le gettò a terra. Aggiunse la vestaglia di sua madre, appesa alla sedia come se aspettasse ancora di indossarla. Fece un mucchio, lo portò in bagno e lo infilò nella lavatrice.

Tornò con un secchio della spazzatura e, con un gesto, spazzò via dal comodino le bottigliette di medicine vuote. Ci infilò anche il bicchiere con cui le dava da bere.

Stese una coperta sul letto, buttò via il superfluo, spolverò e lavò il pavimento. La stanza non era rinata, ma respirare era più facile. Preso dall’entusiasmo, mise a posto l’intero appartamento.

Mentre l’acqua bolliva per il caffè, si avvicinò alla finestra, soddisfatto. Come contagiato dal suo slancio, anche il sole cercava di squarciare le nuvole. In lontananza, una striscia di cielo azzurro si faceva spazio tra la coltre grigia, e la luce filtrò, sollevandogli il morale.

Il frigorifero era vuoto. Matteo non ricordava cosa avesse mangiato negli ultimi giorni, o se avesse mangiato. Sua madre mangiava solo passati liquidi, e lui, esausto, finiva per mangiare lo stesso. Poi aveva svuotato gli avanzi del funerale. Adesso, nel frigo c’era solo un barattolo di cetrioli sotto sale, mezzo vuoto, con uno strato di muffa sulla superficie. E una bottiglia di latte andato a male. Buttò tutto nella spazzatura.

Si accontentò di un caffè forte, ma gli rivoltò lo stomaco. Indossò una giacca, infilò la carta di credito in tasca e uscì per buttare la spazzatura. Al ritorno, entrò in un supermercato e comprò pane, latte, pasta, mezzo salame, mele… Avrebbe comprato qualsiasi cosa, ma si fermò.

A casa, mise la pasta a bollire e divorò due panini col salame. Con l’orecchio sensibile, sentì che la lavatrice aveva finito.

Non c’era spazio per stendere tutto in bagno. Non aveva un balcone, né un appendiabiti. Si grattò la testa, pensando a una soluzione. L’unica era tirare una corda in camera. L’ingresso e la cucina erano troppo piccoli. E allora? Tanto nessuno sarebbe venuto a trovarlo, e il bucato si sarebbe asciugato in poche ore. Doveva solo trovare la corda. Ne trovò un rotolo nel cassetto dell’ingresso, dove sua madre teneva ogni sorta di cianfrusaglie “per ogni evenienza”.

Gli venne in mente Lucia. Aveva avuto una fidanzata, due anni insieme. Sua madre non si opponeva al matrimonio, ma Matteo temporeggiava. Non sapeva neanche lui perché. L’amava, ma si sentiva oppresso quando stavano troppo insieme. Lucia parlava sempre di matrimonio, pianificava il loro futuro. Forse era proprio quello a dargli fastidio: la sua ossessione per l’ordine.

Sua madre diceva che se non si fosse sposato allora, non l’avrebbe mai fatto. Matteo aveva ceduto. Poi lei si era ammalata, e Lucia aveva rimandato il matrimonio. Chi voleva badare a una suocera malata?

All’inizio era venuta, si era mostrata solidale, aiutava a cucinare. Poi aveva iniziato a chiamare, dicendosi impegnata. Le telefonate si erano diradate, fino a sparire. E lui non aveva tempo di chiamarla, tanto cosa avrebbero detto? Era tutto chiaro.

Le aveva telefonato per dirle della morte di sua madre, per invitarla al funerale. Aveva fatto finta di dispiacersi, ma non si era presentata. A dirla tutta, non gli importava.

Trovò un chiodo nel cassetto e lo conficcò nello stipite della porta. Grazie a dio, non avevano sostituito le vecchie porte di legno bianco con quelle moderne di truciolato. Orgoglioso della sua ingegnosità, salì sullo sgabello e legò la corda al tubo.

“Resisterebbe al mio peso?” abbassò le braccia. “Uffa, che idee.”

Dietro la porta, risuonarono dei tacchi. Nell’appartamento accanto si era appena trasferita una ragazza. L’aveva vista una volta sola. Prima ci abitava una coppia anziana, che d’estate andava in campagna. Quell’autunno avevano deciso di affittare per non lasciare la casa vuota.

Aveva già sentito la porta sbattere, i tacchi risuonare nel corridoio, il lucchetto del portone scattare. Poche ore dopo, la ragazza tornava e i suoni si ripetevano al contrario. Non riceveva visite, non usciva la sera. E nell’ingresso rimaneva il suo profumo.

Non sembrava una studentessa, né una fuorisede. Se l’era solo notato, senza darci peso. Non aveva voglia di conoscerla. Non era il momento.

Ma ora i tacchi si fermarono proprio davanti alla sua porta. Matteo rimase sullo sgabello, in ascolto. A un tratto, la porta si aprì e una ragazza magra e carina mise timidamente la testa dentro. Lo fissò con occhi spalancati, tra lo stupElena sorrise, i suoi occhi brillavano nel sole del tramonto, e Matteo capì che la vita, nonostante tutto, aveva ancora qualcosa di meraviglioso da offrirgli.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

4 + 12 =

Realizzazione tardiva: il dilemma della corda e dello sgabello