Domenico si rese conto con ritardo che si trovava su uno sgabello con una corda in mano e che le sue intenzioni potevano essere fraintese.
Era seduto sul letto in mutande, con i piedi appoggiati al pavimento. Gli era sembrato di nuovo che sua madre lo chiamasse.
— Domenico, figlio mio… Domenico…
Quasi ogni notte si svegliava al suono della sua voce. Sapeva che non poteva chiamarlo, perché tre settimane prima era morta. Eppure si alzava, ascoltava, aspettava.
Negli ultimi sei mesi non si era più alzata dal letto. Domenico lavorava da casa per starle vicino. Aveva provato a assumere una badante, ma dopo tre giorni lei era scappata, portandosi via tutti i soldi e i gioielli d’oro di sua madre. Non aveva più rischiato.
Mentre lavorava al computer, tendeva l’orecchio al minimo rumore, pronto a correre da lei. Era così stanco che a volte si addormentava davanti allo schermo. Quella notte si era svegliato al suono della sua voce, si era precipitato nella sua camera. Ma lei non respirava più. Pianse e continuò a chiederle scusa per il fatto che, oltre al dolore, provasse anche un senso di sollievo. Era finalmente libera. E lui, libero.
Ma erano già passate tre settimane e non provava alcuna gioia, solo un’opprimente solitudine e un vuoto dentro.
Lei era sempre stata allegra e giovane. Canticchiava mentre stirava o sistemava la casa. Sembrava che sarebbe rimasta così per sempre. Domenico non riusciva a immaginare che sarebbe morta lentamente, tra atroci sofferenze.
Non aveva più sonno. Guardò l’orologio: le sei e mezza. Fuori, la grigia foschia autunnale sembrava essersi infiltrata anche nella stanza, sbiadendo ogni colore. Silenzio, vuoto, penombra.
Gli sembrava di essere diventato grigio anche lui, senza vita. Si alzò, si vestì e si avvicinò alla porta della sua camera. Era entrato lì solo una volta dopo la sua morte, per scegliere un vestito da farle indossare per il funerale. Aprì la porta bruscamente e vi entrò. Un odore familiare di medicine, urina e corpo malato gli colpì il naso. Cercando di non guardare il letto vuoto e disfatto, si avvicinò alla finestra, tirò la tenda e la spalancò.
Un’aria fresca e umida irruppe nella stanza insieme al rumore della città che si risvegliava. E, stranamente, la camera riprese vita, i colori diventarono più vividi. Domenico sentì un’ondata di energia. Strappò le lenzuola dal letto, cercando di non respirare la polvere invisibile, e le gettò a terra. Lo stesso fece con la vestaglia di sua madre, appesa alla sedia come se lei potesse alzarsi e indossarla. Si formò una pila enorme. La portò in bagno e la infilò nella lavatrice.
Tornò nella stanza con un secchio della spazzatura e con un gesto rapido vi gettò tutte le scatole di medicine e le bottigliette ammucchiate sullo sgabello accanto al letto. Vi infilò anche il bicchiere con cui aveva dato da bere a sua madre.
Stese una coperta sul letto, buttò via tutto il superfluo, spolverò e lavò il pavimento. La stanza non era tornata in vita, ma respirare lì dentro era diventato più facile. Preso dall’entusiasmo, si mise a pulire tutta la casa.
Guardò il risultato del suo lavoro e, soddisfatto, si avvicinò alla finestra mentre il bollitore scaldava l’acqua. Come se avesse preso la sua stessa voglia di agire, anche il sole decise di squarciare il velo delle nuvole. In lontananza apparve una striscia di cielo azzurro, attraversata da un raggio di luce. Il suo umore migliorò.
Il frigorifero era vuoto. Domenico non riusciva a ricordare cosa avesse mangiato negli ultimi giorni, né se avesse mangiato. Sua madre era così debole che poteva ingerire solo cibo liquido e passato. Non aveva avuto la forza di prepararsi altro per sé, e mangiava malvolentieri ciò che cucinava per lei. Poi, per un po’, aveva finito gli avanzi del pranzo dopo il funerale. Ma ora nel frigorifero c’era solo un barattolo di cetrioli sottaceto mezzo vuoto, con una patina di muffa sulla salamoia, e una bottiglia di latte andato a male. Domenico gettò tutto nella spazzatura.
Si accontentò di un caffè forte, ma gli rimase sullo stomaco. Indossò una giacca, infilò la carta di credito in tasca e uscì per buttare la spazzatura. Sulla via del ritorno entrò in un negozio e comprò pane, latte, una confezione di pasta, mezzo salame, delle mele… Avrebbe comprato tutto ciò che i suoi occhi desideravano, ma si trattenne.
A casa mise a bollire la pasta e divorò avidamente due panini con il salame. Con l’orecchio attento sentì che la lavatrice aveva finito.
Tutta la biancheria non entrava negli stendini in bagno. Non aveva un balcone, né un’asciugatrice. Domenico si grattò la nuca, pensando a dove stenderla. L’unica opzione era tirare una corda in camera. L’ingresso e la cucina erano troppo piccoli. E allora? Tanto nessuno sarebbe venuto a trovarlo, e la biancheria si sarebbe asciugata in poche ore. Ora doveva trovare la corda. Ne scoprì un rotolo nel cassetto dell’ingresso, dove sua madre riponeva ogni genere di cianfrusaglia “per ogni evenienza”, cose troppo care per essere buttate, insieme agli attrezzi per le piccole riparazioni domestiche.
Gli venne in mente Giulia. Aveva avuto una ragazza. Si erano frequentati per due anni. Sua madre non aveva nulla in contrario al matrimonio, ma Domenico non si era affrettato. Nemmeno lui sapeva perché. L’amava, ma si sentiva oppresso quando stavano troppo insieme. Giulia parlava spesso del matrimonio, pianificava il loro futuro. Forse era proprio questo a infastidirlo: la sua programmazione meticolosa.
Sua madre diceva che se non si fosse sposato allora, non l’avrebbe mai fatto. E Domenico aveva ceduto. Ma poi lei si era ammalata, e Giulia aveva rimandato il matrimonio. Chi avrebbe voluto occuparsi di una suocera malata?
All’inizio veniva a trovarlo, gli dava conforto, lo aiutava a cucinare. Poi aveva cominciato a chiamare, citando impegni. Col tempo il telefono squillava sempre meno, finché non aveva più suonato. E lui non aveva tempo per chiamare, e poi, cosa dire? Tutto era già chiaro.
Domenico chiamò Giulia, le disse che sua madre era morta, la invitò al funerale. Lei gli aveva espresso un vago condoglianze, ma non si era presentata. A dire il vero, non gli dispiaceva.
Domenico si guardò intorno. Ok, un capo della corda lo poteva legare al tubo vicino alla finestra, l’altro… Trovò un chMentre la corda si tendeva tra il tubo e il chiodo, il profumo di Elena riempì la stanza, e Domenico capì che la vita, con tutta la sua confusa bellezza, aveva finalmente deciso di bussare alla sua porta.