Il regalo di una figlia: il silenzio ruggente della vecchiaia
Maria Grazia si era affaccendata in cucina fin dal mattino: tagliava insalate, preparava la minestra, metteva in forno il pollo all’aglio, lustrava il vaso di cristallo per i fiori. Era scesa due volte al negozio — tornando con una torta e buste piene, inciampando nella vicina all’ingresso.
“Ma stai facendo una festa, Mariuccia?” chiese stupita Lidia, vecchia amica che non si muoveva mai dalla panchina davanti al palazzo.
“E come no! Arriverà Annina, la mia piccola!” rispose Maria Grazia con gli occhi luccicanti, trascinandosi su per le scale a fatica con le buste.
“Mh…” borbottò Lidia, rimanendo seduta. “Lei si spezza sempre per quella figlia. E quella non ha nemmeno il tempo di chiamare la madre… Che vergogna!”
Da tempo l’amica brontolava che Maria Grazia si preoccupava troppo per la figlia ormai adulta. Quella non telefonava per settimane, mentre la madre ogni giorno guardava dalla finestra sperando.
“Dai, Mariù, ti rovini i nervi. Oggigiorno i vecchi sono solo d’intralcio. Avresti dovuto metterla in riga, non correre a comprarle torte.”
Ma per Maria Grazia non era così semplice. Il cuore non è un interruttore. Anna era l’unica per cui si alzava dal letto, anche se sapeva che l’amore in cambio era sempre meno.
Quando finalmente Anna chiamò, dicendo freddamente: “Arrivo stasera”, il cuore della vecchia batteva come un martello. Si agitò per casa, rifacendo il letto, preparando ancora un piatto… E finalmente, il suono del campanello.
Sulla soglia stava sua figlia: alta, magra, distante, con occhiali scuri e un cagnolino al guinzaglio.
“Ciao, mamma,” disse Anna, senza un sorriso.
“Ciao, tesoro! Entra, lavati, ho già preparato tutto!”
Maria Grazia corse in cucina, sbattendo stoviglie, sistemando i piatti con frenesia. Anna la seguì in silenzio, guardandosi intorno con aria distaccata.
“Siediti, ci sono le polpette, l’insalata, la torta — quella che ti piace!”
“Mamma, sto solo un attimo. Mi trasferisco in un’altra città. Per molto tempo. Venire qui è costoso e scomodo, quindi forse non ci vedremo per cinque anni. Questa è Lola. Me l’ha regalata il mio ex, non so perché. Portarmela dietro è un peso. Tu sei sola, può stare con te. Ha un anno e mezzo. Tranquilla, non fa rumore.”
Maria Grazia si bloccò. La torta, le polpette, le lenzuola fresche, il latte, la marmellata — tutto all’improvviso perse importanza. Guardò sua figlia, che non aveva nemmeno tolto gli occhiali.
“Va bene…” riuscì a dire.
“Grazie, mamma. Ti voglio bene.” Anna la baciò sulla guancia, le passò il guinzaglio e sparì dietro la porta.
Pochi minuti dopo, Maria Grazia era in corridoio con il cagnolino tra le braccia. Non aveva mai amato gli animali. Con la sua schiena malandata, la pensione misera e la stanchezza cronica — cosa ci avrebbe fatto ora con un cane?
“Andiamo, Loletta… da Lidia… magari la prende lei…”
Ma appena la vicina aprì la porta, esclamò:
“Ma sei pazza, Mariù? Come se non avessi già abbastanza problemi! Mi rovinerà i mobili, porterà le pulci!”
“Ma non ha pulci… È di Anna, è meticolosa… Ti prego, Lidia, tu almeno hai avuto cani in campagna…”
“E tu hai la testa! Te l’avevo detto: non dovevi adularla. E adesso? Ti ha regalato un ‘bel pensiero’. Portala via e basta.”
Il cane taceva, fissando la vecchia con occhi scuri. In quegli occhi c’era tutto: paura, rassegnazione, e… un dolore familiare.
“Sembra che siamo uguali,” sussurrò Maria Grazia. “Anche tu non servi a nessuno.”
“Fai come vuoi,” borbottò Lidia. “Ma senza di me.”
Così iniziarono i giorni difficili. Lola voleva uscire cinque volte al giorno. La schiena faceva male, le gambe cedevano. Ma il cane sembrava capire — aspettava, senza guaire né abbaiare. Con la pioggia, stava sulla soglia. Col caldo, si accucciava sotto il letto. Col tempo, Maria Grazia cominciò a sentirsi… meno sola.
Anche quando Lidia smise di parlarle. Sì, l’amicizia era finita, ma in casa ora c’era un’anima.
Passò un anno. L’ultimo della vita di Maria Grazia. Il cuore cedette. I vicini la trovarono in cucina, mentre il cane non si era mosso dalla porta, senza mangiare, senza un verso.
Una settimana dopo, Anna entrò in casa senza preavviso.
“Che puzza…” disse disgustata. Lola cominciò ad abbaiare.
“Zitta! Non hai più padrona. Dovrò prenderti. Venderò casa — tu qui non servi a niente.”
Al cimitero, Anna si avvicinò alla tomba fresca.
“Grazie per la casa e i soldi. E lascio qui anche la tua Lola.”
Lasciò cadere il guinzaglio e se ne andò.
Il cagnolino si avvicinò al tumulo, annusò l’erba e si sdraiò accanto. Sapeva che quella era la sua casa.
Passarono due giorni. Lola non si mosse. Non mangiò. Non si alzò.
Al terzo giorno arrivò Lidia, con un mazzo di fiori.
“Ecco dove sei, piccola…” disse, vedendo il cane sulla tomba. “Eh, Maria… Ti sei data tutta a tua figlia. E alla fine… ti è rimasto solo un cagnolino.”
Si chinò, accarezzando il pelo sottile.
“Va bene. Vieni, ti porto con me. Non posso lasciarti così. Se Mariuccia ce l’ha fatta, posso farcela anch’io. L’importante è restare umani.”
Con queste parole sollevò Lola tra le braccia. Tra le nuvole grigie, spuntò il sole. Per la prima volta in quella lunga settimana.