Richiesta della figlia: custodire il nipote per una settimana, mi porta a mesi di faccende domestiche.

Oggi mio figlio mi ha chiesto di venire a stare da loro una settimana per badare al nipotino. Non sapevo che avrei portato con me anche lo straccio e il grembiule per mesi.

Quando mia figlia Elisabetta mi ha chiamato chiedendomi di raggiungerla a Milano per una settimana, non ho esitato nemmeno un attimo. Doveva prepararsi per degli esami importanti e aveva bisogno di aiuto con il piccolo Matteo, di due anni. Le mie amiche mi hanno guardato come se fossi pazzo: «Marco, ma davvero ti sembra una buona idea? Se dici di sì una volta, poi non te ne liberi più». Ma come potevo rifiutare? È mia figlia. È il mio nipotino.

Sono arrivato nel loro bilocale in periferia con una valigia e la sincera intenzione di essere utile. Ma ho capito presto che non servivo solo come nonno, ma anche come cameriere, cuoco, lavandaio e, ciliegina sulla torta, babysitter a tempo pieno senza paga.

Mio genero Luca lavorava giorno e notte, Elisabetta passava le giornate al computer a studiare. E così, tutta la casa è ricaduta su di me: cucinare, pulire, la lavatrice che non smetteva mai, e la lavastoviglie, che peraltro era rotta—dovevo lavare tutto a mano.

Va bene, ho pensato. Resisterò. È solo una settimana. Una.

Ma quella settimana è diventata due, poi tre. E senza accorgermene, è passato un mese intero. Elisabetta aveva finito gli esami, ma subito si era messa a cercare lavoro. Io non potevo andarmene, no? Matteo era piccolo, senza di me non ce l’avrebbero fatta.

Non mi hanno chiesto di restare. Ma non mi hanno neanche lasciato andare. È successo così, senza parole. Vedo che hanno bisogno di me, e rimango. Solo che, giorno dopo giorno, sento sempre più spesso i loro sguardi di disapprovazione. Prima perché la minestra non era di loro gusto. Poi perché ho messo le camicie di Luca nell’armadio sbagliato. E alla fine hanno cominciato a trovarmi perfino «d’intralcio».

In casa loro mi sento come un’ombra. Faccio tutto, aiuto, ma mi sembra di non appartenere a quel posto. E nessuno dice: «Papà, grazie». Nessuno ha il coraggio di dirmi apertamente: «Papà, forse è ora che torni a casa tua». No. Solo sorrisetti storti e sospiri. Eppure, speravo che vedendo quanto facevo per loro, mi avrebbero ringraziato. O abbracciato. O almeno offerto un caffè decente, non quello solubile.

Non avrei mai immaginato che il mio amore e il mio aiuto si sarebbero trasformati in una prigione invisibile.

A casa mia, nel mio monolocale tranquillo a Firenze, ho tutto ciò che amo: i miei libri, i ferri da maglia, le piantine sul davanzale. Ma sono qui. Ogni giorno mi sveglio alle sei per preparare la colazione, poi vesto Matteo, lo porto al parco. Di giorno, pranzo, bucato, lavare i pavimenti. La sera, cena. E la notte, sdraiato sul divano nella cameretta, penso: ma durerà per sempre così?

Ma sono un padre. Sono un nonno. E non li lascerò. Aspetto ancora. Aspetto che un giorno Elisabetta mi dica: «Papà, ti siamo così grati per tutto». O almeno: «Papà, riposati un po’». Magari Luca potrebbe sorridere e ammettere: «Senza di te saremmo persi».

Per ora, solo silenzio.

Forse non hanno ancora capito. Forse i giovani hanno bisogno di tempo per rendersi conto del valore di un sacrificio paterno. E sì, a volte mi sembra di essere dato per scontato. Di essere una risorsa, non una persona.

Ma continuo a sperare. A credere che il mio amore, la mia pazienza e le mie cure non siano inutili. Che non saranno dimenticate. Non voglio che la mia bontà diventi un peso, un rimorso che si porteranno dietro. Voglio che sia un sostegno, un esempio. Che quando Elisabetta sarà più grande, capirà quanto sia importante non solo ricevere, ma anche apprezzare.

Se non sono pronti ora, aspetterò. Sono un padre. E come tutti i padri, ho nel cuore una riserva infinita di fede, anche quando fa male.

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