Ricordo il giorno in cui Matteo varcò la soglia di casa nostra. Aveva cinque anni, magrolino, con occhi sospettosi che sembravano troppo grandi per il suo viso. Stringeva tra le mani uno zaino logoro, lunica cosa che possedeva. Io e Laura avevamo aspettato quel momento per tre anni.
«Benvenuto a casa, campione», dissi, abbassandomi alla sua altezza.
Lui rimase in silenzio, fissandomi. Paura e diffidenza si mescolavano nel suo sguardo, come se non sapesse se poteva fidarsi di noi.
I primi mesi furono duri. Gridava nel sonno, si nascondeva sotto il letto ai rumori forti. A turno, ci alzavamo di notte per accarezzargli i capelli e sussurrargli che tutto andava bene, che nessuno lo avrebbe più abbandonato.
«Non mi rimanderete via, vero?», chiese una volta dopo un incubo.
«Mai, figliolo», risposi. E anche se le parole erano sicure, qualcosa dentro di mi si strinse: quel verbo, «rimandare», graffiava il cuore.
Passò un anno. Matteo fiorì. Rideva, correva in cortile, disegnava noi tre sul frigo: «la mia famiglia». La prima volta che mi chiamò «papà», non trattenni le lacrime. Eravamo felici.
Poi arrivò la notizia che temevamo e desideravamo.
«Sono incinta», sussurrò Laura, stringendo il test tremante tra le dita.
Ci abbracciammo, piangendo di gioia. Dopo anni di cure e delusioni, era un miracolo. Ma insieme, qualcosa di invisibile entrò in casa. Il silenzio tra noi si fece sempre più spesso.
La gente intorno ci riempiva di «buoni» consigli:
«Ora avrete un vero figlio».
«Che bello, qualcuno che sarà davvero vostro».
Queste frasi tagliavano come lame. Matteo le sentiva. E anche se lo rassicuravamo che nulla sarebbe cambiato, vedeva i nostri sguardi posarsi sempre più sulla pancia di Laura e non su di lui.
Quando nacque Sofia, la tenni tra le braccia e sentii qualcosa che non avevo mai provato: un legame istintivo, quasi animale. Era la mia copia, il mio sangue. E in quel momento di felicità, si insinuò unombra.
Mio fratello disse ciò che io non osavo pensare:
«E il ragazzino? Potete restituirlo. Ora avete un figlio vostro».
Feci spallucce, ma quelle parole rimasero nella mia mente come veleno. Ogni mattina insonne, ogni ora passata a cullare Sofia mentre Matteo giocava solo in camera sua, quel pensiero tornava.
Laura fu la prima a parlare:
«Forse sarebbe meglio per lui in unaltra famiglia? Dove sarebbe unico. Adesso non ce la facciamo».
Un brivido mi attraversò. Ma rimasi in silenzio. E quando, il giorno dopo, composi il numero dellassistente sociale, la mia voce tremò:
«Vorremmo discutere un eventuale trasferimento della tutela».
Dallaltro lato, silenzio.
«Signor Rossi, è consapevole che questo bambino vi considera la sua famiglia?», chiese alla fine.
«Sì. Ma le circostanze sono cambiate».
Dopo la chiamata, rimasi seduto al buio a lungo. Provavo disgusto per me stesso eppure, una strana pace, come se mi fossi liberato di un peso. Ma quando, quella sera, Matteo mi si avvicinò, stringendomi la mano, e sussurrò:
«Papà, ho fatto qualcosa di sbagliato?», tutto dentro di me si spezzò.
Quella notte lo guardai dormire e capii allimprovviso: Sofia era arrivata nella nostra vita per caso. Matteo, invece, per nostra scelta. Ed era quella scelta a renderci genitori, molto più del DNA condiviso.
«Laura, non possiamo farlo», dissi nel cuore della notte. «Non possiamo perderlo».
Lei scoppiò in lacrime, piangendo tutta la vergogna, la stanchezza, la paura.
La mattina dopo, ci sedemmo accanto a Matteo.
«Piccolo», iniziò lei piano, «vogliamo che tu sappia: resterai con noi. Per sempre».
Lui ci guardò, gli occhi lucidi.
«Non non mi manderete via?»
«Mai», lo abbracciai. «Sei nostro figlio. E Sofia è tua sorella. Siamo una famiglia».
Quella sera, aiutò Laura a cambiare il pannolino, canticchiando la ninna nanna che un tempo cantavamo per lui. E per la prima volta vidi: era già diventato un fratello maggiore.
Passarono molti anni. Matteo crebbe intelligente, sensibile, con quel sorriso profondo che un tempo nascondeva dolore. Sofia lo adora. Se qualcuno le chiede se sono fratelli, ride:
«Sì, i più fratelli del mondo».
A volte, quando li vedo insieme, ripenso a quel periodo buio e penso: quanto siamo stati vicini a distruggere ciò che di più prezioso avevamo. Per poco non rinnegavamo lamore che noi stessi avevamo scelto.
Ora lo so con certezza: essere genitori non è biologia. È una decisione. Giornaliera, consapevole, a volte dolorosa.
E ogni volta che Matteo mi chiama «papà», sento in quella parola non solo un nome ma una seconda possibilità.