Lui si rifiutò di sposare la ragazza incinta. Sua madre lo appoggiò, ma il padre si schierò in difesa del bambino che stava per nascere.
“Papà, ho una notizia. La vicina, Luisa… è incinta. È mio figlio,” disse Matteo, appena entrato in casa.
Paolo, il padre, rimase un attimo immobile, poi rispose con calma:
“Allora sposala.”
“Ma sei pazzo? Sono ancora giovane. Non è il momento di mettere su famiglia, poi non è che ci siamo frequentati tanto…”
“Davvero?” sbuffò il padre. “Quindi per correre dietro alle ragazze eri un uomo, ma quando si tratta di assumerti le tue responsabilità, diventi un bambino. Benissimo.” Senza aggiungere altro, chiamò alta la moglie: “Anna! Vieni qui un attimo!”
Anna entrò in cucina, asciugandosi le mani sul grembiule:
“Cosa succede?”
“Senti. Nostro figlio ha messo incinta una ragazza e ora non vuole sposarla. Luisa, la figlia dei vicini. Aspetta da lui, e lui se la squaglia.”
Anna non sembrò sorpresa. Il suo volto divenne impassibile:
“E fa bene. Perché dovremmo portare in casa la prima che passa? Oggi le ragazze sono furbe—trovano uno con più soldi, restano, incinte, e poi ‘sposami’. E poi magari si scopre che il figlio non è neanche suo. Che faccia il test del DNA. E comunque, non dobbiamo mettere pressione a Matteo, è ancora giovane. È un uomo, per lui era difficile resistere. Ma non siamo obbligati a mantenere figli che non sono nostri.”
Paolo sospirò profondamente e disse piano:
“E se fosse davvero suo figlio?”
“E anche se lo fosse? Siamo obbligati a prenderci la responsabilità? Diglielo, che faccia i test, e poi vediamo.”
Si girò e tornò in cucina, lasciando Paolo e Matteo soli.
“Sai, anch’io una volta ero giovane,” cominciò Paolo. “Amavo una, ma ho sposato un’altra. Non per amore, ma per responsabilità. Perché essere un uomo non significa solo passione, ma anche scelte e conseguenze. Tua madre all’epoca era incinta. Non sapevo se sarei riuscito a stare con lei, ma sapevo una cosa: il bambino non aveva colpa. È sangue mio, è la mia coscienza. E sai una cosa, Matteo? Nonostante tutto, non ho mai rimpianto di essere rimasto.”
Passarono tre mesi. Il test del DNA diede una risposta chiara: con una probabilità del 99,9%, Matteo era il padre del bambino di Luisa.
“E allora?” sbottò Anna quando Paolo le mise il foglio davanti. “Sì, è suo figlio. Ma questo non significa che Luisa debba vivere in questa casa. Qui non entra, ho detto io!”
Matteo sedeva a capo chino, evitando lo sguardo del padre. Era chiaro che aveva scelto la parte della madre. Stringeva i pugni ma rimaneva in silenzio.
Paolo si alzò lentamente da tavola:
“Se avete preso la vostra decisione, adesso ascoltate la mia.”
Parlò a voce bassa, ma il tono era duro come l’acciaio:
“Finché avrò vita, mio nipote non avrà bisogno di nulla. Prenderò un terreno, costruirò una casa, e lui—mio nipote—avrà tutto quello che ho guadagnato. Voi due, invece, potete smettere di contare sul mio aiuto. Mi rifiuto di partecipare a questa vergogna. Matteo, da oggi non sei mio figlio. Tutto quello che ho andrà al bambino. Non riceverete un centesimo.”
Anna scattò in piedi:
“Ma sei impazzito? Vuoi diseredare tuo figlio?!”
Paolo non rispose. Si voltò e se ne andò, ignorando urla e insulti. Matteo rimase immobile, incredulo che suo padre avesse detto quello per davvero. Ma sapeva una cosa: se Paolo lo aveva detto, lo avrebbe fatto.