**Restare significa esserci**
Ogni mattina, Umberto usciva dalla sua vecchia palazzina in un quartiere periferico di Firenze esattamente alle 7:45. Non perché avesse impegni — la pensione, il lavoro ormai lontano, i figli grandi e trasferiti — ma perché il suo corpo ricordava quell’ora. Il cigolio del portone, la sabbia che scricchiolava sotto i piedi, l’aria fresca che si attaccava al cappotto anche in primavera.
Passava davanti all’edicola, dove ormai nessuno gli offriva più un caffè. Lui sorrideva, annuiva, come per dire: “Tutto bene. Tutto come sempre.” Il cortile, le panchine, la farmacia, i gradini della posta — tutto conosceva il suo passo. Persino i cani randagi non abbaiavano più. Lo riconoscevano.
Il suo percorso finiva sempre all’ultima panchina di legno, accanto a un vecchio pioppo. Storta, lucidata dagli anni, con una tavola scheggiata al centro. Tanti anni prima, era stato lui, Umberto, a sistemarla. Allora lavorava per il Comune: attaccava targhe, rattoppava tetti, cambiava lampadine e rideva con i colleghi durante la pausa. Sembrava che il quartiere reggesse grazie a gente come lui. E la panchina, i bulloni arrugginiti che l’avevano fissata, resistevano ancora.
Si sedeva, versava il caffè nero nel coperchio della thermos, appoggiava sulle ginocchia il giornale senza leggerlo. Lo teneva lì, solido come un’abitudine. Guardava la gente passare: chi andava a scuola, chi al lavoro, chi di fretta. Cambiavano giacche, scarpe, volti. Lui rimaneva. Un’ancora nel fluire del tempo.
A volte qualcuno si affiancava: la signora anziana del palazzo accanto, lo studente in ritardo, un ragazzo col pastore tedesco, una ragazza con la sua tazza, un adolescente con le cuffie. Stavano pochi minuti, poi ripartivano. Lui restava. Come se fosse parte della panchina stessa, la sua voce, il suo respiro.
Un giorno si avvicinò una donna sulla quarantina. Cappotto, macchina fotografica al collo. Esitò un attimo, poi disse:
“Scusi, posso farle una foto?”
Lui alzò le sopracciglia.
“Io? Sicura di non sbagliare persona?”
“No. È per un progetto. Su chi non è andato via. Su chi è rimasto. Lei… sembra parte della città. La guardo e sento che non tutto è svanito. Che qualcuno di vero ancora c’è.”
Lui sbuffò, piegò il giornale.
“Fa’ pure, se insisti. Ma scrivi che non dormo. Altrimenti penseranno che ronfo come un vecchietto al parco.”
“Scriverò che è il custode del tempo,” rise lei.
“Sì, ma niente malinconia. Con la luce. Che non sembri un funerale.”
Una settimana dopo, la foto spuntò in un gruppo locale. Centinaia di commenti: “Lo vedo ogni mattina,” “È come un monumento,” “Senza di lui il quartiere non è lo stesso.” Umberto leggeva, sorrideva fra sé. E continuava a sedersi. A bere il caffè, tenere il giornale. A volte riconosceva negli occhi dei passanti quello sguardo — attento, grato.
In primavera arrivarono gli operai per sostituire la panchina. Nuova, grigia, metallica. Fredda. Senza odore di legno, senza segni del tempo. Uno di loro chiese:
“Le dispiace?”
Umberto annuì, ma non alla panchina: all’ombra che quella vecchia lasciava.
“Sì. Ma non solo a me.”
Non si intromise. Tornò quella sera, quando tutto era silenzio. Con un barattolo di vernice marrone e un pennello. Si sedette, ridisegnò una sottile crepa — esattamente dove c’era sulla tavola antica. Un ricordo. Un segno.
Poi si sedette, versò il caffè, aprì il giornale. E la nuova panchina scricchiolò, appena. Come se lo riconoscesse.
Da allora, Umberto tornò lì. Nello stesso posto. Nello stesso tempo. Solo la panchina era diversa. Ma il caffè era lo stesso: amaro, con un retrogusto metallico. E il giornale identico. E la gente uguale, solo un po’ più vecchia. Qualcuno salutava, qualcuno diceva “buongiorno”. Una volta un bambino, passando con la madre, sussurrò:
“Mamma, guarda! Quel signore della foto… esiste davvero!”
A volte, per restare, non serve andare lontano. Non serve parlare forte. Basta esserci. In un posto. A lungo. Con il cuore. Perché un giorno qualcuno, fermandosi un attimo, pensi: “Che bello che ci sia.” E sorrida, piano piano.