Risvegli di vecchi rancori: la frattura in un legame tra sorelle

— Non sono la babysitter di tua figlia! — gridò Giulia quella volta, e quelle parole si conficcarono nell’anima di Beatrice come un coltello. Risonarono non solo nel cuore della madre, ma anche negli occhi di Sofia, di otto anni, che era sulla soglia e aveva sentito tutto.

Dopo la morte del marito, Beatrice rimase sola con due figlie. Giulia, la maggiore, aveva quattordici anni, mentre Sofia ne aveva appena otto. Quasi nessun aiuto dai familiari: la nonna paterna preferiva non immischiarsi, e la madre di Beatrice viveva a mille chilometri di distanza, venendo a trovarle raramente. Tutto il peso ricadde sulle spalle di quella donna già stremata dal dolore. I soldi bastavano a malapena, e le forze morali erano ancora meno.

Sofia, la più piccola, aveva mostrato talento per il disegno fin da bambina. Una vittoria a un concorso cittadino le aveva regalato l’opportunità di studiare gratuitamente in una prestigiosa scuola d’arte. Ma le lezioni richiedevano viaggi continui — quattro volte a settimana. Due giorni Beatrice riusciva ad arrangiarsi, ma per gli altri due era impossibile. Il lavoro diventava complicato, e il capo iniziava a guardarla male. Allora decise di chiedere aiuto a Giulia.

— Dopo scuola sei libera. Potresti accompagnare Sofia e aspettarla un paio d’ore — propose Beatrice, cercando lo sguardo della figlia.

Ma la risposta fu gelida: — E io sarei una babysitter? Sono ancora una ragazzina anch’io! Dopo scuola voglio riposare, non trascinarmi Sofia per la città!

E poi, come un coltello al cuore: — Non dovevi farne due — così ti saresti occupata solo di una!

Dopo quelle parole, Beatrice non ce la fece più. Le lacrime le rigavano il viso; si voltò per rifugiarsi in camera, ma sulla soglia c’era già Sofia. Aveva sentito tutto. Piangeva anche lei. Senza dire una parola, si avvicinò alla madre e l’abbracciò.

Fu la nonna di un’altra bambina della scuola d’arte a offrirsi d’aiuto. Viveva lì vicino e poteva accompagnare Sofia senza problemi. Così, poco a poco, la vita riprese un ritmo. Un anno dopo, Sofia andava già a lezione da sola, ma il dolore per il tradimento della sorella rimase sepolto in profondità.

Passarono gli anni. Sofia si iscrisse all’università, trovò un lavoro e affittò un appartamento. Beatrice si trasferì dalla madre. Giulia invece si sposò e si trasferì in un’altra città. Ebbe un figlio. Tutto sembrava andare bene — finché un giorno Sofia ricevette una chiamata.

Giulia piangeva al telefono: — Ci ha cacciati! Ha detto che non sopporta più le mie scenate e ci ha buttato fuori! Non vuole pagare gli alimenti! Io e mio figlio non abbiamo dove andare…

Sofia non esitò — invitò la sorella a stare da lei. Ma quando Giulia le chiese di badare al bambino per potersi cercare un lavoro, la risposta fu fredda: — Mi dispiace, Giulia, ma non sarò la babysitter di tuo figlio. È tuo, non mio. E non ti devo nulla.

Giulia esplose: — Ma sono tua sorestra!

— Non ricordi cosa dicesti a mamma quando avevi quattordici anni? Non ricordi come urlavi che non mi avresti mai accompagnata alle lezioni? Mamma piangeva come una bambina, e io ero lì e sentivo tutto. Sai una cosa? Da allora non ho più sentito che eri mia sorella. Hai scelto te stessa. Ora scelgo anch’io me stessa.

Giulia non rispose. Riattaccò.

Ora Sofia continua a lavorare e a studiare. La sorella vive con lei, ma giorno dopo giorno è chiaro che la ferita di allora non si è rimarginata. Sofia aiuta, ma senza affetto. Senza tenerezza. Solo perché è la cosa giusta da fare. Perché altrimenti non se lo perdonerebbe.

Ma la Sofia che un tempo guardava la sorella maggiore rifiutarsi di esserle vicina non è più una bambina. È una donna adulta. E conosce il peso delle parole.

Voi cosa ne pensate? Sofia avrebbe dovuto perdonare e aiutare con il bambino? O a volte, per non spezzarsi, bisogna lasciare nel passato chi una volta non ha voluto tendere la mano?

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