L’aroma del caffè appena fatto e dei cornetti caldi avvolgeva la cucina come un incantesimo di serenità. Dieci anni con Andrea. Dieci anni di porto sicuro e felicità. Luisa gioiva di quella nuova mattina—i raggi di sole che danzavano sul tavolo, il respiro tranquillo della figlia Sofia nella camera da letto. Pace e armonia.
Il campanello suonò troppo brusco. Sulla soglia c’era Matteo, il figlio del primo matrimonio di Andrea. I suoi occhi brillavano di un’agitazione insolita, le guance arrossate.
«Papà!» sussurrò, appena varcata la porta. «È tornata! Mamma! Ieri! Ha preso un appartamento in centro… Dice che le mancavamo!»
Il nome «Aurora» rimase sospeso nell’aria, pesante e indesiderato come un colpo alla porta nel cuore della notte. Quella stessa. Quella che quindici anni prima era svanita in un «futuro felice» con un uomo spagnolo, lasciando Matteo, allora di sei anni, tra le braccia di un padre sconvolto e dei nonni anziani. «Per sempre!» diceva quell’unica, fredda lettera d’addio. Ora era tornata. Senza niente in mano, ma non senza speranze, pensò Luisa con un peso di ghiaccio nel cuore.
L’incontro nel ristorante elegante fu uno spettacolo in un atto. Aurora irruppe come una nuvola rosa di chiffon e un profumo pesante, stucchevole.
Sparì perle di sofferenza: «Un matrimonio orribile!», «Si è rivelato un mostro!», «Mi mancava tantissimo il mio bambino!».
Le sue dita, ingioiellate di anelli, si allungavano più volte verso la mano di Andrea. «Andrea, ricordi quando noi…?» Lui si scostò appena, il volto una maschera di cortesia, ma Luisa colse la sua tensione. Matteo, invece, guardava la madre come ipnotizzato, bevendo ogni parola, ogni lacrima che bagnava le sue ciglia truccate.
Il primo assalto di manipolazione arrivò a notte fonda. Una telefonata squarciò il silenzio. Dall’altra parte, Aurora singhiozzava, coperta dal rumore dell’acqua:
«Andrea! Aiutami! Il rubinetto… si è rotto! L’acqua esce a fiotti! Sono sola… Non so cosa fare!»
Andrea si alzò in silenzio, si vestì. Luisa rimase a guardare il buio, ascoltando i suoi passi. Tornò dopo qualche ora, impregnato di freddo e umidità.
«Sistemato?» chiese piano Luisa.
«Una guarnizione. Una sciocchezza.» Si tolse la giacca, si sedette sul letto. «Mi ha ricevuta avvolta solo in un asciugamano. Dice che l’acqua ha rovinato tutto l’armadio.» Nella sua voce non c’era né emozione né imbarazzo. Solo stanchezza. «Un trucco che già conosco.»
Poi venne «il buio». Una chiamata di giorno, la voce di Aurora, sottile e spaventata:
«Andrea, nel portone… la luce lampeggia! Come in un film dell’orrore! Ho paura di uscire! Matteo è all’università… Non posso comprare il pane!»
Andò. Comprò il pane. La lampada nel portone lampeggiava davvero. La sostituì. La porta del suo appartamento si spalancò. Lei era in un negligé trasparente, appoggiata con languore allo stipite.
«Mio salvatore!» sussurrò con voce melliflua. «Entri? Prendiamo un caffè… Chiacchieriamo… Come una volta?»
Andrea scosse la testa, gentile ma fermo:
«È tardi. Luisa mi aspetta. E non ho bisogno di caffeina per restare sveglio.»
Se ne andò, lasciandola sulla soglia. Il suo volto si contorse per un attimo in una smorfia di rabbia, subito sostituita dalla solita maschera di fragilità.
Il culmine fu la chiamata di Matteo, spezzata dal panico:
«Papà! Subito! Sta male la mamma! È caduta… Dice che le si scurisce la vista! Respira a fatica!»
Andrea balzò in piedi, ma nei suoi movimenti non c’era la solita ansia. Arrivò. Aurora era sdraiata sul divano in una posa da Madonna raffaellesca, una mano a coprirsi drammaticamente la fronte, l’altra che lasciava cadere il lembo della vestaglia di seta.
«Andrea…» sussurrò, aprendo gli occhi. «Che paura… Sono sola…»
Non si avvicinò. Guardò la bottiglia vuota per terra. Chiamò l’ambulanza. Mentre aspettavano, chiese a Matteo, con tono neutro:
«Cosa ha mangiato? Bevuto?»
«La mamma ha detto che è lo stress…» borbottò il figlio, imbarazzato.
I medici diagnosticarono un banale malessere. Aurora tentò di afferrare la manica di Andrea mentre lui se ne andava:
«Non abbandonarmi… Ho così paura…»
Si liberò con delicatezza.
Nei suoi occhi, quando tornò a casa da Luisa, lei non lesse compassione, ma stanco disprezzo per quella farsa. «Una commedia già vista» disse più tardi, seduto in cucina. «Solo le scenografie sono diverse. Ha sempre recitato la parte della poverina quando voleva qualcosa. Ricordi quando, prima di partire con quello spagnolo, improvvisamente si “ammalò” e “non poteva fare a meno del mio sostegno”? Poi—bum, la lettera. Ero una stampella. Si ruppe la stampella, ne trovò un’altra. Ma io non sono una stampella, Luisa. Non voglio e non sarò mai così. Specialmente per lei.»
Dopo il fiasco con Andrea, Aurora rivolse tutta la sua attenzione a Matteo.
Le lamentele si fecero più forti, le lacrime più copiose, soprattutto quando il figlio era presente. «Tu padre mi ha scaricata come un oggetto inutile!», «Lei lo ha aizzato contro di noi!», «Siamo sangue del suo sangue! Lei qui è un’estranea!». Parole come spine avvelenate si conficcarono nella mente del ragazzo. Matteo cominciò a rispondere male a Luisa, le sue visite a casa del padre divennero rare e tese. Una volta sbatté la porta, sentendo il padre rifiutarsi di nuovo di aiutare Aurora con un «urgente» trasferimento di documenti.
«Perché sei così crudele?!» urlò Matteo, il volto deformato dal rancore. «Sta male! È sola! Piange!»
Andrea si alzò. Sembrava più alto e più fermo del solito. La calma della sua voce era più spaventosa di un urlo.
«Matteo. Aiuto tua madre quando c’è un vero bisogno. Non sono obbligato a fare da marito, psicologo o servo. Ho una famiglia. Qui. Tu. Luisa. Sofia. E Luisa qui non è “un’estranea”. È mia moglie. La amo e la rispetto. E pretendo lo stesso da te. E riguardo alle lacrime…» fece una pausa, guardandolo dritto negli occhi. «Sta male perché il mondo non gira intorno ai suoi capricci. Ha fatto una scelta quindici anni fa. Ora è tempo di viverla, senza distruggere la vita altrui. Non tornerò da lei. Mai. Tientelo a mente.»
L’atto finale si svolse al compleanno di Andrea. Aurora apparve senza invito, come un fantasma del passato, in un vestito troppo giovane e troppo scollato. In mano, una scatola costosa. Un orologio. Quello che, in un’altra vita, aveva sognato invano. Cercava il suo sguardo, sorrideva languidamente, sussurAndrea prese la mano di Luisa e le sorrise, mentre la porta si chiudeva alle spalle di Aurora, lasciando finalmente il passato dove apparteneva.