*Il ritorno a sé stessa*
Quella sera capì che suo marito mentiva. Non per il tono, non per le parole, ma per il suo silenzio. Marco sapeva tacere con dignità: lunghe pause, uno sguardo sfuggente, un velo di stanchezza sul viso. Quel silenzio poteva sembrare riflessione, profondità interiore. Ma quella volta era diverso: fragile, tagliente, come una maschera sotto cui si agitava qualcosa di vivo, goffo, incapace di nascondersi.
— Ancora in ritardo — disse lui, evitando i suoi occhi, e la voce gli incespicò contro un muro invisibile.
— Dove sei stato? — chiese lei piano, quasi un sussurro. Nella sua voce non c’era rimprovero né sospetto, solo un lieve tocco su ciò che da tempo la graffiava dentro.
— Al lavoro. Da Luca. Abbiamo discusso del progetto. Lo sai già.
Lei lo sapeva. Ma sapeva anche altro: Luca era partito con la moglie e i figli per la Sicilia. Aveva visto le sue storie, sentito la sua risata nei messaggi vocali. Non chiese altro. Non discusse. Tutto le divenne chiaro come cristallo.
— Certo — rispose, sparecchiando la tazza dal tavolo. Il gesto era troppo fluido, quasi automatico, come di chi ha visto più di quanto volesse.
Più tardi si coricarono come sempre, schiena contro schiena. Lui si addormentò subito, iniziò persino a russare, come se nulla fosse cambiato. Lei invece rimase sveglia, fissando il buio, sentendo crescere in petto un peso: non gelosia, non paura, ma una nuova, pesante consapevolezza. Lenta, densa, come una goccia prima di cadere. Non era una scoperta improvvisa, ma un tacito accordo con l’inevitabile. Come se qualcuno dentro di lei le avesse sussurrato: «Eccolo. Ora lo sai».
Il giorno dopo comprò un biglietto per Firenze. Senza un piano, senza una ragione. Disse a Marco che andava dalla sorella. Lui annuì troppo in fretta, con un sollievo che non riuscì a nascondere. La sua assenza non lo turbava, e questo rafforzò la sua decisione.
Firenze la accolse con un vento freddo e l’odore dell’asfalto bagnato. La città sembrava assonnata, come se non volesse svegliarsi. Affittò una stanza da una signora anziana, con occhi stanchi e una voce logorata dal tempo. Dalla finestra si vedevano alberi spogli e un muro scrostato su cui qualcuno aveva scritto: «Vivi finché il cuore batte».
Per tre giorni vagò per le strade. Non chiamò, non scrisse. Il telefono restò in borsa, muto come un oggetto di cui non ci si vuole più occupare. Bevve caffè in piccole caffetterie, dove profumava di vaniglia e solitudine — quella solitudine calda che abbraccia invece di ferire. Guardava le persone: chi correva, chi rideva, chi portava borse, chi aspettava qualcuno. In ogni volto vedeva un riflesso di sé — di quella che era stata un tempo, con gli occhi luminosi, il cuore aperto, la fiducia nel domani.
Al quarto giorno si svegliò leggera, come se si fosse liberata di una pelle vecchia. Il corpo era senza peso, come se avesse riposato non una notte, ma anni. Uscì con in mano un bicchiere di carta con il caffè. La mattina era quieta, senza promesse, ma piena di vita. E all’improvviso capì: poteva non tornare. Poteva non essere quella che tutti si aspettavano che fosse. Poteva essere semplicemente se stessa.
Poteva andare più lontano — non a Parigi o a Tokyo, ma a Napoli, a Bologna, a Torino. In città dove nessuno conosceva il suo nome né faceva domande. Viaggiare finché il passato non si fosse cancellato. Finché non fosse rimasta solo lei — senza ruoli, senza l’etichetta di “moglie”, senza maschere né aspettative altrui. Solo una persona. Una donna. Viva. Con i suoi errori, le sue paure, i suoi sogni.
Alla stazione comprò un biglietto per Roma. Poi per Milano. E poi, chissà. Dormì sui treni, con la fronte appoggiata al vetro freddo. Mangiò cornetti nelle stazioni, bevve tè in bicchieri di plastica. Scrisse su un taccuino — pensieri, frammenti, ricordi. Lesse Leopardi, rileggeva Ungaretti, sottolineando le righe che le toccavano il cuore. A volte pianse. A volte rise. A volte si limitò a guardare dal finestrino, e a ogni fermata le sembrò di lasciarsi alle spalle il superfluo. Rimaneva solo l’essenziale: lei stessa.
Passarono quarantadue giorni.
Tornò a Roma all’inizio di aprile. Nell’appartamento che profumava di polvere e di un passato dimenticato, come un vecchio museo. Tutto era al suo posto, ma sembrava sbiadito: le tende, i piatti, i libri sullo scaffale. Marco era in cucina, come se non si fosse mosso in tutto quel tempo. Lo stesso sguardo. Le stesse pause. Le stesse ombre negli occhi, come se lì il tempo si fosse fermato.
— Dove sei stata? — chiese con quella stessa incertezza dietro cui si nascondeva sempre una menzogna.
— Cercavo me stessa — rispose lei. — E credo di avermi trovata.
Lui tacque. Le sue mani erano posate sul tavolo — tese, immobili. Ma lei non aspettò più una risposta. Non aspettò più nulla.
Quella sera fece la valigia. Con calma, senza fretta. Prese solo vestiti, libri e un vecchio album di foto. Il resto non era suo. Non i piatti, non le tende, non i rimpianti, non la colpa. Tutto era rimasto nel passato.
Non lo lasciò per scappare. Lo lasciò per tornare a sé stessa. Dove poteva respirare a pieni polmoni. Dove la voce non le tremava. Dove era, finalmente, solo sé stessa.
Poi venne un nuovo lavoro — semplice, ma suo. Con compiti chiari, con persone che apprezzavano il suo contributo, con la sensazione di essere utile. Un piccolo appartamento con finestre su un cortile antico, dove al mattino cantavano gli uccelli e la sera il tramonto si rifletteva nei vetri, come se brillasse solo per lei.
La sua voce divenne più ferma, perché non doveva più nasconderla. La sua risata era autentica, non per cortesia, ma perché era davvero felice. Arrivava spontanea, come il respiro.
A volte lo sognava. Le stesse pareti, la stessa cucina. Ma perfino nei sogni taceva diversamente — non per paura, non per stanchezza. Con calma. Come chi non deve più spiegare perché vive come vive.
Perché il silenzio non le abitava più sotto la pelle. Viveva dentro di lei — come una casa. Calda, luminosa, con le finestre spalancate.
E non era una fuga. Era un ritorno.
Era un inizio.