*Ascoltami bene, questa storia la devo raccontare come se fossimo al bar a prendere un caffè…*
**Trovarsi un lunedì**
Quel lunedì, Eleonora si svegliò prima del solito. Non per la sveglia, né per qualche rumore – semplicemente aprì gli occhi. Come se dentro di lei si fosse spento un motore invisibile, che per tre anni l’aveva trascinata fuori dal letto all’ora giusta. Erano le 6:42. Fuori nevischiava, una neve umida e grigia, densa, quasi volesse infilarsi nella stanza da ogni fessura. L’aria in casa era pesante, straniera. E qualcosa, in quella mattina, sembrava già storto.
Stesa nel letto, ascoltava il termosifone vecchio che gorgogliava. Un suono irregolare, quasi un lamento, come se dentro qualcuno graffiasse. Forse era la pressione, o forse in casa faceva freddo. O forse il freddo era dentro di lei – chi poteva misurarlo, dove davvero c’era stato un guasto?
In cucina, tutto era al suo posto: la tazza bianca con la crepa, il frigo coperto di calamite di città dove non era mai stata, la rosetta secca sul tagliere. La mano cercò automaticamente il cassetto con le crocchette per il gatto. Ma il gatto non c’era più. Da un anno. Eppure la mano aveva una sua memoria.
Eleonora lavorava in una copisteria alle porte di Firenze. Da sei anni. Lì dentro odorava di carta, toner, caffè della macchinetta e una stanchezza eterna. Ogni giorno era una fotocopia del precedente. Le facce, sempre le stesse; le chiacchiere, sempre le solite; il senso, ormai cancellato. I colleghi? Prevedibili: Marco con le barzellette sulla moglie, Giulia che anche in bagno parlava al telefono dei suoi drammi amorosi, e Piero, il vecchio stampatore, la cui vita era finita quando il suo cane era morto. E lei? Non sembrava più una persona, ma una funzione, un ingranaggio in un sistema dove non c’era spazio per i sentimenti.
Si guardò allo specchio. Un viso senza particolari. Né vecchio, né stanco. Solo estraneo. E nella testa le rimbalzò: *”Ma perché?”*. E subito dopo, il vuoto. Perché la risposta non c’era. Da tempo.
Quel giorno, non andò al lavoro. Semplicemente non uscì. Salì su un autobus e guardò scorrere via l’ufficio, come fosse un fondale. E lei, una spettatrice troppo stanca perfino per applaudire. Arrivò in un altro quartiere, dove una volta, a quindici anni, con la sua amica Beatrice beveva succo di frutta e baciava ragazzi di cui ormai non ricordava neanche il nome. Allora tutto era diverso. Dolce. Libero.
Ora, a quell’angolo, c’era un chiosco verde menta con un menu scritto a mano. Eleonora comprò un cappuccino alla cannella – la prima volta in vita sua. Prima la odiava. Lo bevve e sentì la lingua bruciare, mentre dentro qualcuno accendeva pian piano una luce.
Girò per i cortili, osservò una nonna che spezzava il pane ai piccioni, come se dividesse l’anima. Un ragazzo che rideva cadendo nella neve. Una donna con il foulare che sistemava il passeggino. Tutto sembrava una recita, e lei finalmente aveva smesso di recitare e si limitava a guardare. In quello sguardo c’era qualcosa di strano – né dolore, né felicità, ma qualcosa di caldo, di umano. Come se le avessero finalmente permesso di sentire.
Verso le due, entrò in una parrucchiera. Di impulso. Senza appuntamento.
*”Che si fa?”* chiese la parrucchiera.
*”Taglio. Corto. Voglio che mia madre abbia paura.”*
*”Fatto come vuoi”* sorrise la donna, prendendo le forbici.
I capelli cadevano a ciocche, come pezzi del passato. Ogni ciocca, un ricordo, un rancore, un urlo soffocato. Quando uscì con i capelli corti, audaci, si sentì più leggera. Come se qualcuno, che le aveva abitato dentro troppo a lungo, se ne fosse andato finalmente.
Comprò una pizzetta con la scarola, la mangiò per strada. Entrò in libreria e scelse il libro più inutile: *”Lezioni di metafisica”*. Solo per dimostrare a se stessa che poteva. Scegliere. Fare. Essere strana. Essere sé stessa. Scoppiò a ridere. Davvero. Senza motivo. Le lacrime le rigarono il viso, e la gente si girava, ma a lei non importava. Perché per la prima volta era lei – ridere, viva.
La sera tornò a casa. Sua madre era alla finestra, con quella maglione che indossava sempre quando cucinava il ragù la domenica.
*”Dove sei stata?”*
*”A fare un giro.”*
*”Stai bene?”*
*”Sì.”*
*”Meno male”* disse la madre, poggiando la pentola sui fornelli.
Mangiarono in silenzio. Solo il rumore delle posate. La luce della candela tremolava sul davanzale.
*”Domani mi licenzio”* disse Eleonora. *”E mi iscrivo a un corso. Non so ancora quale.”*
*”L’importante è che non stai zitta”* rispose la madre. *”Il silenzio è come la muffa. Ti divora.”*
Eleonora annuì. Perché quel lunedì, in una città piena di nevischio e facce stanche, per la prima volta da tanto tempo, si era sentita – non chi altri volevano, né chi doveva essere. Solo sé stessa. E non serviva altro.