Rottura con la figlia: l’ombra del passato

*Diario di un padre*

Sono passati due anni da quando mia figlia, Elena, ha smesso di parlarmi. Un anno fa, senza motivo apparente, ha iniziato a ignorare le mie chiamate. Ha cambiato le serrature del suo appartamento in un paesino lungo il fiume Adige e ha chiarito che non vuole più vedermi. Ancora oggi, il dolore di quel distacco mi stringe il cuore ogni volta che penso a lei.

«Due anni senza una parola», sospiro, cercando di controllare l’emozione che mi fa tremare la voce. «Elena vive la sua vita: posta foto sui social, esce con gli amici. Ma a me, niente. Né una chiamata, né un messaggio. È una donna adulta, ha una bambina di tre anni e un marito, vivono nel loro appartamento. Io sono sempre stato severo—con me stesso, con gli altri, e anche con lei. Credo che un genitore debba essere esigente. Volevo che studiasse, che aiutasse in casa, che curasse il suo aspetto».

Non ho mai cambiato i miei principi, neppure quando Elena ha formato una famiglia. Andavo a trovarla spesso, ma ogni visita diventava un’agonia. «Come fai a vivere in questo caos?», brontolavo, riordinando gli armadi come se avesse ancora dieci anni. Facevo notare i piatti sporchi, la rimproveravo per la scarsa attenzione alla bambina e non mi trattenevo dal criticare suo marito: «Matteo non combina nulla, è sempre senza un soldo!». Credevo di essere l’unico a poterle dire la verità, anche se per lei era doloroso.

Un anno fa, tutto è cambiato. «Chiamai Elena, come al solito», ricordo, mentre il rancore mi oscura lo sguardo. «Le dissi che la figlia di mia nipote, a soli quattro anni, già sapeva leggere. Lei esplose: “Perché fai sempre paragoni?”. Mi sorprese—come non confrontarli, se la differenza è evidente? Fu la nostra ultima conversazione». Poco dopo, scoprii che aveva cambiato le serrature e mi aveva bandito dalla sua casa. «Pensai fosse un capriccio passeggero», dico. «Credevo che si sarebbe ravveduta e sarebbe venuta a scusarsi. Invece, nulla».

I mesi passavano, e il silenzio diventava sempre più pesante. Alla fine di luglio, era il mio compleanno. Aspettai una sua chiamata, ma il telefono restò muto. «Non fare nemmeno gli auguri a tuo padre!», esclamai con amarezza. Il giorno dopo, crollai e la chiamai da un numero sconosciuto. «Le dissi: se non vuoi più parlarmi, libera il mio appartamento!», ricordo, la voce spezzata dalla rabbia.

Sei anni prima, prima del matrimonio di Elena, le avevo intestato la mia casa. «Matteo guadagnava una miseria», spiego. «Volevo aiutare la giovane coppia, ne avevo la possibilità. Ma ora che mi ha voltato le spalle, si trovi un’altra sistemazione!». Elena rispose secca: l’appartamento era suo, i documenti in regola, e nessuno poteva cacciarla. «Ha detto che è casa sua e che non ho diritto a pretendere nulla», ribatto indignato. «Dov’è la giustizia?».

Sono convinto di aver fatto la cosa giusta. «Se è così indipendente, lo dimostri!», dico con sfida. «Si cerchi un’altra casa, visto che non rispetta suo padre». Ma dentro di me, il dolore persiste. Ripenso a quando l’ho cresciuta, a quando le insegnavo a essere forte, al sogno di un rapporto più stretto con lei. «Volevo solo il suo bene», mormoro, gli occhi lucidi. «Perché mi ha respinto?».

Elena, da parte sua, rimane in silenzio. Forse era stanca delle mie critiche, del mio controllo. Forse voleva solo proteggere la sua famiglia da quello che percepiva come un’invasione. Ma io non sono pronto ad accettare questa fine. Aspetto che sia lei a fare il primo passo, anche se, giorno dopo giorno, la speranza svanisce come la nebbia mattutina sul fiume.

*Lezione imparata:* A volte, l’amore più rigido può allontanare chi ci è più caro. Meglio un abbraccio in più che un rimprovero di troppo.

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