Quel giorno non avrei dovuto essere vicino all’acqua.
Dopo una breve pausa dal turno al bar del porto di Como, afferrai un panino e scese sul molo per un po’ di tranquillità. Poi lo sentii: il ronzio inconfondibile di un elicottero che fendeva il cielo. Comparve all’improvviso, basso e veloce.
La gente indicava, filmava, sussurrava. Io rimasi immobile, gelato. Qualcosa non andava.
E poi lo vidi: un pastore bianco e nero gigantesco, bardato con un giubbotto salvagente fosforescente, in piedi sulla soglia aperta dell’elicottero come se l’avesse fatto cento volte. Calmo. Fermo. Pronto.
L’equipaggio urlava qualcosa sopra il frastuono delle pale, indicando il lago.
Seguii i loro gesti e scorsi una testa che affiorava a fatica tra le onde. Troppo lontana per qualsiasi aiuto dalla riva.
Allora il cane saltò.
Un tuffo pulito, perfetto. Scomparve un attimo, poi emerse con bracciate possenti.
Non mi accorsi di muovermi finché non fui aggrappato alla ringhiera, il cuore in gola. Un istinto viscerale mi trascinava.
Poi lo riconobbi.
Il naufrago che si dibatteva nelle acque gelide – semicosciente, fradicio e inerme – indossava la giacca a vento che avevo piegato io stesso nello zaino quella mattina.
Era mio fratello. Matteo.
D’improvviso, rivissi la scena della sera prima.
“Non ce la faccio più, Edoardo,” aveva sbattuto la porta. “Tutti sanno cosa fare tranne me.”
Credevo fosse andato a schiarirsi le idee. Forse a dormire in auto, come faceva a volte. Invece non era tornato.
Mai avrei immaginato si avvicinasse al lago. Odiava l’acqua fredda. Odiava il fondo.
Il cane era quasi arrivato, i muscoli che fendevano l’acqua con determinazione. Un soccorritore in muta lo seguiva, legato a una fune. Ma il cane fu più veloce.
Afferrò delicatamente la giacca di Matteo – esperto, come un veterano. E Matteo… non oppose resistenza. Si abbandonò, inerme.
Sulla riva urlavano. Un bagnino chiamò la barella. I paramedici si fecero largo tra la folla. Scivolai giù dalla ringhiera, le gambe molli, barcollando verso di loro.
Trascinarono Matteo fuori dall’acqua, pallido e senza respiro. Labbra blu. Un medico iniziò il massaggio cardiaco mentre un altro gli iniettava qualcosa. Non riuscii ad avvicinarmi, ma vidi un tremito nelle sue dita.
Il cane – grondante, ansimante – si sedette accanto alla barella, controllando, attendendo.
Mi inginocchiai accanto a lui.
“Grazie,” sussurrai, incerto se potesse capire.
Lui mi leccò il polso, dolce e deciso. Come per dire: “So”.
Trasportarono Matteo all’ambulanza. Un operatore mi indicò l’ospedale. Io ero già in auto prima che finisse di parlare.
In ospedale, l’attesa fu eterna.
Squillì il telefono. Non risposi. Fissai solo le porte.
Finalmente, un’infermiera uscì. “È cosciente,” disse. “Rintronato, ma chiede di te.”
Nella stanza, Matteo sembrava fragile. Tubo nasale. Monitor che bipavano. Mi guardò con il rimorso che gli nuotava negli occhi.
“Non volevo che finisse così,” sospirò. “Volevo solo… nuotare un po’. Schiarirmi la testa.”
Annui, pur sapendo che non era vero. Non sapeva nuotare così lontano. Ma non lo accusai.
“Mi hai fatto rizzare i capelli, Matteo,” dissi piano.
Sbatté le palpebre. “Quel cane… mi ha salvato.”
“Sì,” confer
Non avrei mai dovuto trovarmi vicino all’acqua quel giorno.
Era solo una breve pausa dal turno al bar del porto turistico. Afferrai un panino e mi diressi alla banchina per un po’ di tranquillità. Poi sentii quel ronzio inconfondibile: un elicottero che fendeva il cielo basso e veloce, apparso dal nulla.
La gente indicava, filmava, sussurrava. Io ero pietrificato, avvertivo qualcosa di… strano.
Poi vidi il cane.
Un enorme pastore bianco e nero con pettorina fosforescente da soccorso, fermo sulla porta aperta dell’elicottero come un veterano. Calmo. Sicuro. Pronto.
L’equipaggio gridava sopra il frastuono delle pale, indicando il lago.
Segui i loro gesti e scorsi una testa che galleggiava lontana, troppo distante per essere raggiunta da riva.
Il cane saltò.
Un tuffo pulito, da professionista. Sparì un istante sott’acqua prima di avanzare con bracciate potenti.
Mi ritrovai sulla ringhiera senza ricordare di essermi mosso, il cuore in gola. Un presentimento mi serrava lo stomaco.
Poi lo riconobbi.
La persona che si dibatteva nelle acque gelide indossava la giacca a vento che avevo piegato io stesso nella sua borsa quella mattina.
Era mio fratello. Marco.
All’improvviso mi tornò in mente la sera prima.
“Non ce la faccio più, Luca”, aveva sbattuto la porta dicendo. “Tutti hanno la vita in ordine tranne me”.
Credevo fosse andato a schiarirsi le idee, come quando
Solo dopo anni ho capito che uno sconosciuto con un elicottero e un cane non aveva salvato solo mio fratello quella mattina sul Lago di Garda, aveva salvato anche me dal rimanere per sempre prigioniero del mio senso di colpa.