La scadenza è passata
L’alba di ieri in un piccolo paese ai piedi delle Alpi accolse Anna con il suo freddo. La cucina, impregnata dell’umidità delle vecchie mura, taceva, interrotta solo dallo scricchiolio occasionale delle assi del pavimento. La luce del mattino, filtrando attraverso la finestra appannata, proiettava la sua ombra sul pavimento — lunga, tremula, come se avesse paura di occupare troppo spazio. Anna accese il bollitore vecchio, che sussurrò come una bestia svegliata di soprassalto, e a tastoni trovò nella dispensa una scatola di latte condensato. Le dita indugiarono sul metallo freddo. La data di scadenza era passata due anni prima. E per qualche motivo, questo le portò uno strano sollievo.
Quattro anni fa, Davide aveva portato a casa un’intera cassa di quel latte condensato. «Per ogni evenienza, servirà», aveva detto ridendo, mentre seduti per terra si gustavano il dolce direttamente dalla lattina, accompagnandolo con un tè forte. Allora discutevano su cosa fosse più dolce — il latte condensato o le sue stupide battute, che la facevano ridere fino alle lacrime. Le lasciava sempre una traccia sulla guancia — una goccia che lei asciugava, fingendosi irritata. Poi tutto cambiò. Le risate si spensero. La cassa rimase lì, a prendere polvere nell’angolo della dispensa, come un monumento al loro passato che lei non aveva il coraggio di smantellare.
Anna aprì la scatola. Con dita tremanti, come se temesse di risvegliare qualcosa ormai dormiente da tempo. L’odore la colpì — amaro, con un retrogusto di ruggine. Non le ricordava Davide. Le ricordava sé stessa — quella che una volta credeva che l’amore potesse essere sigillato, come quelle lattine, e conservato per sempre. Ma persino il latte condensato, a quanto pare, sapeva morire. In silenzio. Senza preavviso.
Tutto ciò che restava di Davide aveva una scadenza. Il suo maglione, che lei indossava a volte, prima per sentire ancora il suo calore, poi solo perché era comodo. Il biglietto per lo spettacolo al teatro locale, a cui non erano mai andati — infilato in un vecchio libro che lui aveva abbandonato a metà. Il portatè comprato alla fiera del paese vicino — impolverato sullo scaffale, come una speranza dimenticata. E quel latte condensato. All’inizio Anna non lo buttava via, come se disfarsene significasse chiara la porta al passato. Poi si era semplicemente abituata alla sua presenza. Come al vuoto nell’appartamento.
Non avevano litigato. Non avevano urlato. Non avevano rotto piatti. Davide si era semplicemente spento. Prima aveva smesso di guardarla negli occhi. Poi aveva sostituito i «noi» con gli «io». Poi aveva iniziato a tornare a casa tardi, con addosso l’odore di fumo altrui e di stanchezza. Tutto era avvenuto in silenzio, senza drammi. E poi aveva detto: «Ho bisogno di tempo» — e se n’era andato. Prima dagli «amici». Poi, per sempre. Senza parole solenni, senza un punto. Come l’acqua che scivola via da una tazza incrinata.
Anna non era arrabbiata. Davvero. Solo non riusciva a capire come andare avanti. I primi mesi preparava il tè per due per abitudine, controllava il meteo, scriveva messaggi che non inviava mai. Poi aveva iniziato a cancellare le sue tracce. Dal letto. Dalle tende. Dall’aria delle stanze. Imparava a vivere da sola. Lentamente. Con incubi notturni. Con un dolore improvviso al petto che la assaliva nel bel mezzo della giornata, come un’eco del passato che nessuno aveva spento.
Il lavoro la salvava, ma non la riscaldava. I colleghi in ufficio erano come decorazioni — educati, ma vuoti come tovaglioli di carta. I parenti — lontani, a centinaia di chilometri. Le amiche erano immerse nelle loro vite: figli, mariti, post sui social riguardo all’alimentazione sana. Anna invece era rimasta ferma. Come un fotogramma di un film in cui l’eroina è immobile a un bivio, incerta se andare avanti o aspettare un miracolo.
Una volta, su un autobus affollato, notò una vecchietta. Aveva più di settant’anni, una borsa consunta tra le mani e gli occhi vuoti, come se la vita si fosse dissolta da tempo. Anna la osservò e vide sé stessa. Non vecchia, no. Vuota. Non aveva paura delle rughe, ma di quel silenzio interiore in cui non si aspetta più nulla. La paura le serrò la gola come il vento freddo della strada.
Quella stessa sera si iscrisse a un corso di ballo. Poi, a uno di ceramica. Poi andò al cinema da sola. Non per trovare qualcuno. Per ritrovare sé stessa — quella che esisteva prima di Davide, prima delle attese, prima che l’amore diventasse il suo unico orizzonte.
Non aspettava miracoli. Stava solo tornando a sé. Passo dopo passo. Una nuova coperta, in cui avvolgersi solo per piacere. Un nuovo profumo in bagno — con note di bergamotto, aspro come il ricordo che tutto passa. Un nuovo tè, senza zucchero, ma con il sapore della libertà. Aveva le sue serate. I suoi pensieri. I suoi silenzi. E per la prima volta in anni — la sensazione che la solitudine potesse non essere una gabbia, ma uno spazio aperto, con posto per lei.
Davide lo rincontrò tre anni dopo. In una piccola farmacia all’angolo. Era in fila, stringendo una confezione di paracetamolo. I capelli erano ingrigiti, la schiena curva, la giacca — quella del loro passato, consunta come il suo sguardo. Sembrava che negli ultimi anni avesse cercato di afferrare qualcosa che ormai gli sfuggiva.
La vide e si bloccò:
— Ciao, — la sua voce tremò come quella di un ragazzino.
— Ciao, — rispose lei. Con calma. Anche se per un attimo tutto dentro di lei si strinse, come per una puntura.
Silenzio. Come un abisso. In quell’attimo volarono via anni che non erano mai esistiti. Domande che non aveva fatto. Risposte che ormai non importavano più.
— Come stai? — chiese lui, guardando a terra.
— La scadenza è passata, — rispose con un lieve sorriso. Senza ironia. Semplicemente. Come chiude un libro.
Lui non capì. O forse sì, ma tacque. La guardò solo un attimo in più, come se aspettasse che aggiungesse qualcosa. Ma Anna si era già girata verso lo scaffale delle erbe. Lentamente. Senza rabbia. Senza dolore.
Oggi aveva preparato il tè. Aveva trovato un’altra scatola di latte condensato — quella nascosta nell’angolo più remoto, con il coperchio annerito e un’ammaccatura. L’odore era lo stesso — amaro, un po’ oscuro. Ma non faceva più male. Non la riportava al passato. Era lì, semplicemente, come un fatto: tutto ha una fine. Anche ciò che sembra eterno. Anche l’amore.
Mescolò un cucchiaio di latte condensato nella tazza. Bevve un sorso. Il retrogusto era strano, ma non le tagliava più la gola. Era onesto. Come un ricordo finalmente lasciato andare.
Il latte condensato le ricordava: anche i momenti più dolci possono rovinarsi. Ed è normale. Perché quando qualcosa finisce, c’è sempre spazio per qualcos’altro. Con un sapore nuovo. Con una nuova forza. Con una nuova scadenza — ma questa volta, solo tua.