Scintille di vendetta in una casa silenziosa

**11 Ottobre, 2024**

Il crepuscolo avvolgeva il paesino di Monteluce, tingendo le strade di una luce dorata. Ero appena tornato dal lavoro, stanco ma soddisfatto. Nell’ingresso mi aspettava mia moglie, Eleonora, con un sorriso caldo e il profumo delle polpette appena cotte.

«Ciao, vuoi cenare? Ho preparato le polpette», disse, aggiustandosi il grembiule.

«Certo», risposi, togliendomi le scarpe. Tirai fuori dal taschino un mazzo di chiavi e le posai distrattamente sul mobiletto.

Eleonora notò subito quelle sconosciute. «E queste?», chiese, strizzando gli occhi.

«Mamma è partita per tre settimane per la clinica termale», spiegai, massaggiandomi la nuca. «Mi ha chiesto di controllare il suo appartamento e mi ha lasciato le chiavi.»

I suoi occhi si illuminarono di una luce furba, quasi sinistra. Batté le mani ed esclamò: «Finalmente! Lo farò!»

Mi bloccai, confuso. Mia moglie, di solito così pacata, sembrava aver architettato qualcosa di enorme.

«Di che parli? Cosa farai?», chiesi, mentre un groviglio di preoccupazione mi serrava lo stomaco.

Eleonora si limitò a sorridere, ma nello sguardo c’era una determinazione che mi fece venire i brividi.

Poche settimane prima, la nostra vita era stata sconvolta. Al ritorno da una visita ai genitori di Eleonora, trovammo il nostro appartamento irriconoscibile. La carta da parati nell’ingresso, scelta con amore, era stata sostituita con una sgargiante, piena di motivi kitsch. I mobili erano stati spostati: l’armadio bloccava la sala, il letto era rivolto verso la finestra, distruggendo ogni senso di intimità.

«Ma che diavolo…?», mormorò Eleonora, lasciando cadere la borsa a terra.

Io sbirciai oltre la sua spalla, cercando di capire. Il cuore mi si strinse.

«Chi ha fatto questo?», sibilò lei, le mani che tremavano. «Non sembra più casa nostra!»

«Calma», dissi, posandole le mani sulle spalle. «Cerchiamo di capire.»

Più guardavamo, più cresceva la rabbia. In salotto, il divano era stato spostato vicino alla finestra, la tv messa in un angolo. Nella camera, la credenza era stata spinta contro il muro, dove prima c’era lo specchio. Il caos aveva un unico colpevole: mia madre, Giovanna.

Un mese prima, Giovanna era venuta a “ispezionare” la nostra casa. Criticò tutto: dai colori della carta da parati alla disposizione dei mobili.

«Che carta triste! Sembra un ospizio!», disse, scuotendo la testa. «Ci vuole qualcosa di vivace, che rallegri!»

«A noi piace così», rispose Eleonora, trattenendo l’irritazione.

«No, così non va! Con questi toni deprimenti è normale che sei sempre nervosa!», continuò mia madre, ignorando ogni obiezione. «E i mobili sono messi male. L’armadio deve stare nell’angolo, non in mezzo alla stanza! E il letto è completamente sbagliato!»

Eleonora avrebbe voluto ribattere, ma il mio sguardo la fermò. Discutere con mia madre era inutile. Se ne andò, lasciando un’atmosfera pesante.

Poco dopo, dovemmo partire per il compleanno della madre di Eleonora. Il nostro gatto, Biscotto, non poteva restare solo, e proposi di chiedere a Giovanna di occuparsene. Eleonora si oppose:

«Vuoi darle le chiavi? Ricomincerà a comandare!»

Ma non avevamo scelta. Con riluttanza, accettò, ma diede istruzioni precise: quando dargli da mangiare, dove trovare i giochi. Ogni giorno chiamava per controllare. Mia madre rispondeva solo: «Tutto bene», e riattaccava.

Al nostro ritorno, capimmo che non si era limitata al gatto. Aveva stravolto la nostra casa.

«Cosa facciamo ora?», chiese Eleonora, esausta.

«Rimettiamo i mobili a posto, cambiamo la carta», sospirai. «Chiamo mamma e glielo faccio pagare.»

Eleonora asciugò una lacrima, poi sorrise. «No», disse, con voce decisa. «Ho un’idea migliore. Tua madre va in clinica, no?»

Affermai, ancora confuso. Lei strizzò l’occhio.

Quando Giovanna partì, lasciandoci le chiavi, Eleonora brillava di gioia.

«Finalmente le farò provare la stessa cosa!», esclamò, facendo tintinnare le chiavi.

Io, pur incerto, la sostenni. Mia madre meritava questa lezione.

Per tre settimane trasformammo il suo appartamento. Cambiammo la carta da parati con motivi sobri, spostammo i mobili, aggiungemmo decorazioni «più adatte».

Al suo ritorno, Giovanna rimase pietrificata.

«Ma che avete fatto?!», urlò al telefono. «Dov’è la mia carta a fiori? Chi vi ha permesso?»

«Abbiamo pensato che i tuoi gusti fossero troppo vivaci», risposi, calmo. «Alla tua età servono colori rilassanti.»

«Stai scherzando?! Non ne avete il diritto!», gridò. «Rimettete tutto subito!»

«Non abbiamo ancora finito», replicai. «E tu, perché hai deciso di cambiare casa nostra?»

Silenzio. Per la prima volta, sembrò capire.

«È diverso! Io volevo aiutare, voi… è solo cattivo gusto!»

«La nostra casa è affar nostro», tagliai corto. «Se non vuoi ritrovarti il divano in terrazza, non intrometterti più.»

Tacque, sconvolta. Da allora, non interferì più. Eleonora, soddisfatta, riprese possesso della nostra vita.

**Morale della storia:** A volte, la miglior vendetta è far assaggiare all’altro la sua stessa medicina. Soprattutto quando si tratta di suocere italiane.

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