*”Sparisci e non disturbare”: L’ultimo viaggio di mia madre*
Vissero una vita lunga e tormentata con Michele Rinaldi, come una strada di campagna dissestata – buche, saliscendi, sole e tempeste. Claudia Orsini aveva sempre creduto che, con il marito al fianco, nessuna disgrazia potesse spaventarla. Insieme affrontarono oltre quarant’anni. Povertà, un incendio, la morte dei due figli maggiori… Sopportarono tutto senza un lamento, tenendosi stretti. Rimase solo il più piccolo, Luca. La loro luce, l’ultima speranza. Cresciuto, laureato, trasferito in una grande città: Milano. Scriveva spesso, visitava raramente, ma Claudia capiva – impegni, responsabilità, non era un caso se suo figlio era diventato un “uomo importante”.
Quando Michele morì – il cuore ceduto durante una bufera di gennaio – Claudia si ritrovò completamente sola. La casa di campagna divenne muta e vuota, la neve si stendeva sul tetto come un sudario. Luca insistette: la portò in città, nell’appartamento acquistato dopo il matrimonio con la nuova moglie – una donna moderna e sprezzante di nome Alessia.
L’appartamento era sontuoso: cinque stanze, parquet lucido, elettrodomestici di lusso, persino la macchina del caffè parlava. Ma per Claudia, tutto era estraneo. Persino l’aria. Le era stata assegnata una stanza in fondo al corridoio. Non una gabbia, ma neanche una casa. Stava lì in silenzio, come un topolino, senza osare muoversi.
«Basta che non disturbi», sussurrava Luca. «Alessia è sotto stress, non è abituata ad avere estranei in casa.»
Claudia taceva. Del resto, taceva quasi sempre. A volte Luca passava a parlare, ma raramente. Alessia… fingeva di non vederla. A volte la sfiorava con uno sguardo che pareva posato su una macchia di sporco.
Una sera Luca la invitò a cena. Claudia indossò il vestito buono, si sistemò i capelli, sedette a tavola. E allora Alessia, versando il vino, disse con falsa allegria:
«Ecco, anche il fossile si è unito a noi! Sai almeno usare il microonde? O in campagna cuocete ancora sulla brace?»
La sua risata risuonò come vetro infranto. Luca non disse nulla. Claudia abbassò lo sguardo.
Poi arrivò una conversazione che non avrebbe dovuto sentire. Ma la sentì.
«Luca, ma quanto dura questa farsa? Mi vergogno! Le mie amiche non vengono più – hanno paura di quell’ombra che si trascina per casa!»
«Ma non ti disturba… sta lì, tranquilla…»
«Mi disturba il fatto che esista! Quanti anni ha? Potrebbe anche farla finita e lasciarci in pace!»
«Che diavolo dici? È mia madre!»
«Cosa ti ha dato, questa “madre”? Potresti anche sfamare un topo in cantina, ma non ci vivresti mai con lui!»
Claudia si coprì le orecchie. Rimase seduta nell’oscurità, a lungo. La sua anima piangeva. Aveva creduto di aver cresciuto un uomo vero… di aver dato tutto. E invece era solo un peso.
Non dormì quella notte. Ripercorse ricordi, pensieri, oggetti. I soldi della vendita della casa di campagna, tenuti in banca, aveva pensato di darli a Luca – forse avrebbero aiutato col mutuo. Ma lui le aveva detto: «Mamma, ma cosa dici? Abbiamo pagato tutto subito.»
Decise quella stessa notte. Sarebbe partita. In silenzio, con dignità. Come aveva sempre vissuto.
Preparò un piccolo fagotto: un foulard, il Vangelo, una maglia pesante, qualche banconota. Uscì senza far cigolare il pavimento. Vagò per le vie finché non trovò la stazione. Comprò un biglietto per un treno regionale. Poi, verso il monastero vicino ad Assisi.
Ne conosceva l’esistenza da anni. Aveva letto di quel posto in un libretto della chiesa, ma temeva sempre che suo figlio avesse bisogno di lei, che ci fossero nipoti da accudire. Ma nipoti non ce n’erano. E di lei nessuno aveva bisogno.
Al monastero la accolsero come una di loro. Nessuna domanda. Solo un abbraccio e un «Rimani con noi. Dio provvederà.»
Le diedero una cella semplice. Un’icona, un letto, una coperta. Poi le assegnarono una giovane novizia, Suor Caterina. La ragazza la aiutava a camminare, le leggeva preghiere, le portava il tè. Claudia donò al monastero tutto ciò che aveva: soldi, l’anello, lo scialle che la nonna le aveva fatto. Tutto, per trovare pace.
E qui, per la prima volta in decenni, non si sentì un peso, un’ombra, ma semplicemente una donna. La luce delle candele, l’incenso, la calma… tutto curava la sua anima. Si sedeva alla finestra a lavorare a maglia, leggeva salmi. In chiesa accendeva una candela per Michele. Per la salute di Luca. Persino per Alessia.
«Perdonali, Signore», sussurrava. «Non sanno quello che fanno.»
Un anno dopo, quando le foglie cadevano dai tigli del monastero, Claudia prese i voti. Le diedero un nuovo nome: Suor Serafina.
Se ne andò in silenzio, un dicembre. Dopo la messa del mattino. Con un sorriso. La trovarono così nella sua cella – mani giunte, occhi chiusi, la candela consumata fino alla base.
Ai funerali, Luca non venne. Mandò dei soldi. E al monastero dissero: «Suor Serafina è stata una madre per noi. La accompagneremo noi.»
Ora sulla sua tomba c’è una semplice croce di legno. E un gatto randagio che Claudia nutriva si crogiola al sole. E sembra che il vento tra le foglie sussurri:
*«Sparisci e non disturbare…»* – no, non sei sparita, madre. Ti sei salvata.