— Valeria Rossi, ma cosa stai dicendo?! Non puoi fare così! — la voce di Michele Bianchi tremava di sdegno. — Io non sono un tuo parente!
— E chi lo è, allora? — si raddrizzò bruscamente la donna, stringendo tra le mani un foglietto stropicciato dell’ospedale. — Mio figlio, che chiama una volta ogni sei mesi dalla sua Milano? O la nipotina che si è dimenticata completamente di sua nonna? Tu, invece, da tre anni mi chiedi ogni giorno come sto, mi compri le medicine quando non ho soldi!
Michele si agitò goffamente nell’ingresso. Alto, curvo, con una barba grigia incolta e occhi buoni ma stanchi. Era venuto quella mattina, come al solito, per sapere se doveva comprare qualcosa al supermercato, e invece si era trovato davanti a quella richiesta.
— Ma l’appartamento non puoi intestarlo a me! Cosa dirà la gente? Cosa penseranno i vicini? — si tormentava tra le mani un vecchio cappello.
— E a me non importa cosa pensano! — Valeria entrò in salotto e si sedette sulla sua poltrona preferita vicino alla finestra. — Siediti, non stare lì come un palo.
Michele si sedette timidamente sul bordo del divano. Fuori cadeva una pioggerellina di ottobre, e le gocce che scendevano sul vetro rendevano l’atmosfera ancora più accogliente. Sul davanzale fiorivano viole — portate da Michele quella primavera.
— Ascoltami bene, — Valeria incrociò le mani sulle ginocchia. — Ieri sono stata dal dottore. Il cuore non sta bene, la pressione balla. Dice che da un momento all’altro potrebbe succedere… beh, tu capisci.
— Non dica così! — si spaventò Michele. — Lei vivrà ancora a lungo, io l’aiuterò come sempre. Ci sono medicine nuove, buone…
— Michele, — lo chiamò a bassa voce, e lui trasalì. Raramente lo chiamava per nome. — Sai cosa mi spaventa? Morire sola. È questo che mi terrorizza. Con te vicino, invece, non ho paura.
Si erano conosciuti tre anni prima in fila all’ASL. Valeria aveva un’impegnativa per il cardiologo, si teneva il petto e respirava a fatica. Lui aspettava il suo turno dall’urologo. Vedendola male, le aveva offerto acqua dalla sua bottiglietta.
— Grazie, caro, — gli aveva sussurrato allora. — Sei una persona buona.
Poi avevano scoperto di abitare in case vicine. Michele aveva iniziato a passare a trovarla, a chiederle come stava. Lei gli preparava da mangiare, lui aggiustava qualcosa in casa. Senza accorgersene, erano diventati indispensabili l’uno per l’altra.
Michele aveva la sua storia. La moglie era morta cinque anni prima, non avevano figli. Era rimasto solo in un appartamento vuoto, dove ogni oggetto gli ricordava il passato. Aveva lavorato come operaio in fabbrica, ora viveva con una modesta pensione.
Il figlio di Valeria, Matteo, dopo l’università si era trasferito a Milano, aveva trovato lavoro come informatico, si era sposato. All’inizio tornava per le feste, poi sempre meno. Chiamava per i compleanni e a Natale, chiedeva distrattamente di sua madre, prometteva ma non manteneva.
— È molto impegnato, — si giustificava Valeria con i vicini. — Ha un lavoro importante. E poi i bambini sono piccoli, la moglie non sta bene…
Ma la verità era che Matteo si era dimenticato di sua madre. Non per cattiveria, solo la vita lo aveva portato lontano. La nipote Sofia mandava qualche foto su WhatsApp, ma era ormai una sconosciuta.
— Michele, tu non hai mai desiderato dei figli? — chiese una volta Valeria mentre bevevano il caffè in cucina.
— Sì. Molto, — rispose lui, girando lentamente lo zucchero nella tazzina. — Ma non è stato possibile. Mia moglie, Dio l’abbia in gloria, faceva cure… Poi era troppo tardi. Mi diceva: “Sposa una più giovane, abbi dei bambini”. Ma come potevo amare un’altra? Lei era… l’unica.
Valeria gli prese la mano.
— Sei un uomo speciale. Di quelli che non si trovano più.
Lui scosse la testa, imbarazzato.
— Sono una persona normale.
— No. Quelli normali sono indifferenti. Tu, invece, soffri per chiunque.
Era vero. Michele non sapeva voltare le spalle a chi aveva bisogno. Se un vicino aveva un problema, lo chiamavano lui. La signora del primo piano con il rubinetto che perdeva, la giovane madre del terzo con il passeggino rotto, la gatta della vecchina ricoverata in ospedale…
— Ti senti responsabile di tutti, — gli diceva Valeria. — Ti stancherai.
— E come faccio altrimenti? — rispondeva sincero. — La gente soffre.
I vicini lo rispettavano, ma alcuni ridevano di lui: troppo buono, quasi ingenuo. Valeria, però, sapeva che persone così erano rare.
Anche lei aveva una storia difficile. Aveva lavorato in biblioteca tutta la vita, lettrice instancabile. Il marito era morto giovane, aveva cresciuto Matteo da sola. Ma lui era volato via, come un uccello dal nido. Una storia comune, ma dolorosa.
— Sai cosa mi fa più male? — confessò una sera. — Non che Matteo sia partito. I figli devono vivere la loro vita. Ma che sia diventato un estraneo. Quando mi chiama, sembra di parlare con un conoscente.
— Forse non sa come fare diversamente? — suggerì Michele.
— No. Sa benissimo. Solo non vuole farmi entrare nella sua vita. Si vergogna, forse, di una madre di provincia con la moglie milanese e i suoceri professori.
— Allora è un cretino, — disse Michele, insolito nella sua franchezza. — Scusi, ma è così. Vergognarsi di una madre così.
Valeria lo guardò sorpresa. Lui che difendeva sempre tutti…
— Non arrabbiarti, — si scusò. — Ma non capisco. Una madre è una sola. Come si può voltarle le spalle?
— Siamo di un’altra generazione, Michele. Per noi la famiglia contava di più.
Ora, seduti in salotto, Valeria tornava sull’argomento del testamento. Lui si tormentava il cappello tra le mani.
— Ascolta, — proseguì lei. — Ho pensato a tutto. A Matteo non serve questo appartamento. Lo venderebbe e basta. Tu, invece, ci vivresti, innaffieresti i miei fiori, magari aiuteresti qualcun altro. Tu sei così, non riesci a ignorare chi ha bisogno.
— Valeria, — sospirò lui. — Lo so che lo fa per bontà… ma come sembrerà? Diranno che venivo qui per interesse.
— E tu ci venivi per interesse?
— Ma no! Solo… ero solo. Con lei mi sentivo a casa.
— E io con te. E ho paura di morire sapendo che a nessuno importerà.
Squillò il telefono. Valeria rispose.
— Pronto? Matteo? — la sua voce si illuminò. — Figlio mio, che bello sentirti!
Michele sentiva solo una parte, ma capiva dal tono: una chiamata di circostanza. Il figlio chiedeva della salute, parlava di lavoro, dei bambini.
— Quando vieni? — chiese Valeria, con un tremito nella voce. — A Natale? No, capisco… I biglietti costano… Sì, i bambini a scuola…
La chiamata durò pochi minuti. Matteo aveva fretta, doveva lavorare. Promesse vaghe, saluti formali.
— Forse verrà a Natale, — disse Valeria, senza voltarsi. — Forse.
— Verrà, — disse— No, Michele, non verrà, — sospirò, asciugandosi una lacrima, — ma almeno ho te, e questo mi basta per non sentirmi più sola.






