“Tu mangi e non fai niente”: allora ho fatto le valigie in silenzio e ho venduto la casa dove vivevano.
Quelle parole mi colpirono come una frustata. Caddero nel silenzio della nostra modesta cena come un sasso nell’acqua calma, creando onde tra i piatti di polpette e piselli stracotti. La mia forchetta si fermò a mezz’aria.
“Divora il cibo di tre e non muove un dito! Non sono la sua badanteche si arrangi prima che la butti fuori!” esclamò mia nuora, Silvia.
Mio figlio, Alessandro, continuò a mangiare senza alzare lo sguardo. Non una parola in mia difesa, nemmeno un cenno, neppure un’occhiata. Il suo silenzio urlava più forte delle sue parole. Mio nipote mi fissava confusotroppo piccolo per capire, ma abbastanza grande per sentire il peso della rabbia degli adulti.
Ingoiai il boccone in silenzio, posai la forchetta accanto al piatto. Non piansi, non mi giustificai. Non dissi che l’artrite alle mani mi impediva di lavare i pavimenti, che il mal di schiena mi bloccava quando mi chinavo. Non ricordai che cucinavo quando potevo, che stiravo quando le dita mi obbedivano. Semplicemente iniziai a sparecchiare.
Più tardi, nella mia stanzettaun letto stretto, nessun armadio, una finestra troppo altaascoltavo il clic della ventola a ogni giro. Dal salotto arrivavano le loro risate, il tintinnio dei bicchieri, la televisione.
Non piansi, ma qualcosa di freddo si insinuò nel petto. Non per l’umiliazioneper l’erosione lenta di anni. Mi avevano cancellata da tempo, quel giorno avevano solo tracciato i contorni.
Ricordai gli anni in cui mio marito era malatomorì lentamente, dolorosamente. Lavai i suoi vestiti, lo sfamai con il cucchiaio, tenni insieme la casa con gli sconti dei giornali. Ricordai Alessandro da piccolocome lavorai doppi turni nella tintoria per comprargli i quaderni, come cucii i bottoni all’uniforme di notte.
E ora ero solo “quella che mangia per tre”.
Il mattino dopo non me ne andaisarebbe stato troppo facile. Preparai il caffè, stirai, cucii un bottone alla giacca di mio nipote. Ma tacqui.
Due giorni dopo partirono per il weekend”una gita in famiglia”, senza invitarmi. Silvia parlò di “aver bisogno di tempo per loro”. Alessandro evitò ancora il mio sguardo.
Allora preparai una valigia: documenti, rosario, taccuino di pelle. Non lasciai bigliettisolo le chiavi sul tavolo, accanto a un asciugamano piegato.
L’autobus mi portò dall’altra parte della città. La casa di riposo era modesta ma pulita, senza odore di disperazione. La receptionist mi diede un modulo senza domande. Sorrisi, dissi qualcosa su “tranquillità”, ma dentro ero vuota.
Seduta sul letto stretto, annusando la candeggina, guardavo l’ombra di un albero dalla finestra. Per la prima volta mi chiesi: ero davvero un peso? Ero solo “quella che mangia per tre”?
Ma all’alba una voce sussurrò: “E se avessero torto?”
Preparai il tè come piace a me, mi avvolsi nella coperta fatta a mano e chiamai:
“Giovanni Battista,” dissi, la voce tremula. Era un vecchio amico di mio marito, il nostro avvocato. “Ricorda i documenti della casa?”
Una pausa, poi: “Ricordo tutto, fin nei dettagli.”
Tre giorni dopo ero nel suo studiolibri, odore di cuoio e carta antica. Aprì una cartella davanti a me.
“Dovevi avere una copia,” disse.
C’era tutto: il mio nome, l’indirizzo, il timbro di mio marito. La casa da cui mi volevano cacciare era mialegale, dal 1994.
“Non l’ho detto a nessuno,” sussurrai.
Lui sorrise: “Forse è il momento?”
Mio marito era venuto una settimana prima della diagnosi, preoccupato che restassi senza tetto.
Citazione: “Ha costruito questa famiglianon deve chiedere permesso per vivere nella propria casa.”
Le lacrime mi bruciarono la gola. Anche morendo, aveva pensato a menon con sentimentalismo, ma con pragmatismo, proteggendomi.
“Voglio venderla,” dissi ferma.
“Lo farò in silenzio,” annuì.
“Che lo scoprano dalla lettera, non da me.”
Quella notte tornai alla casa di riposo con pasticcini per lo staff e fiori per Nina, la vicina. Bevemmo tè in silenzio, poi rilessi ogni riga del documento.
Mio marito aveva firmato per amore. Io firmai per consapevolezza.
Sei mesi dopo, Giovanni Battista chiamò: “Fatto. I soldi sono sul conto, la casa è dei nuovi proprietari.”
Alessandro chiamò senza sosta. Allora risposi con un messaggio: “Tutto legale. La casa era mia. Ho solo ripreso ciò che ho pagato.”
Poi Silvia: “Strega! Hai venduto casa nostra!”
“No,” risposi calma. “Casa mia. Voi ci vivevate gratis, come io vi ho sfamato.”
Il giorno dopo, Alessandro: “Mamma, perderemo tutto… Non abbiamo dove andare… Silvia piange… Ho sbagliato, avrei dovuto fermarla…”
“Non vi tolgo nulla,” dissi. “Riprendo solo ciò che credevate avessi dimenticato.”
“Possiamo riparare?”
“Alessandro, ho dato senza contare. Ma quando tua moglie ha parlato e tu hai taciutoqualcosa è cambiato. Non voglio i vostri soldi, né scuse. Voglio solo pace.”
Con i soldi della vendita, comprai un vecchio edificio alla periferia di Romaquattro appartamenti, vernice scrostata, scale cigolanti. Lo chiamai “Casa della Pace”. Sulla targa incisi: “Qui nessuno deve dimostrare di meritare di esistere.”
Divenne un rifugio per donne come menonne invisibili, chiamate pesi. La prima ospite fu Nina. Poi arrivarono altre tre: Maria, maestra in pensione, Valentina, fioraia, e Giorgio, ex cuoco.
Organizzavo la spesa, le visite mediche. Il giovedì leggevo il giornale ad alta voce, la domenica ballavamo con i dischi di una volta.
Un giorno Giorgio, tagliando pomodori, disse: “Siamo vivi oggi solo perché ti hanno chiamata parassita.”
Mi bloccai, poi risi: “Ironico, no?”
“Ha trasformato il dolore in un rifugio. Non tutti ne sono capaci.”
Un anno dopo, arrivò Alessandro. Senza arroganza, senza scusecon il silenzio della disperazione.
“So di non meritare di essere qui,” sussurrò.
Gli mostrai una foto dei primi giorniscale da verniciare, giardino vuoto, ma quattro sorrisi con pennelli in mano.
“L’hai costruito… con i soldi di casa nostra?”
Annuii.
“E non li hai spesi per te?”
Scossi la testa: “Li ho spesi per qualcosa che cresce.”
“Perché?”
“Perché tu mi hai sfamato un anno, io te per trenta. Ho solo preso una piccola parte.”
Lui fissò la foto: “Posso aiutare? Con la casa, con gli ospiti?”
Scossi di nuovo la testa: “Questo posto non ha bisogno di te. Vivi meglio, ama di piùquesto basterà.”
Gli diedi un foglio bianco: “Riempilo con qualcosa di degno.”
Lo tenne come fosse oro: “Promesso.”
E per la prima volta dopo anni, gli credetti.