Mi sembra che non ci siamo mai lasciati…
Ogni giorno Ginevra tornava a casa sperando che Marcello fosse tornato. Sapeva che non aveva le chiavi, le aveva lasciate quando se n’era andato. Eppure sperava ancora di aprire la porta e trovare le sue scarpe da ginnastica nell’ingresso. Ma anche questa volta, il miracolo non accadde.
Avevano vissuto insieme per due anni. Lui aveva riempito il vuoto lasciato dalla morte di sua madre. E perché mai aveva iniziato quella discussione? Tra loro non c’era mai stata passione. Stavano semplicemente bene insieme. Ma Marcello non le aveva mai chiesto di sposarlo, non parlava del futuro, del loro futuro.
“E poi? Che succederà?” aveva chiesto Ginevra una sera.
“Parli del matrimonio? E cosa cambierebbe?”
“Per una donna è importante. Se per te non lo è, forse dovremmo separarci.” L’aveva detto quasi scherzando, per spaventarlo, per spingerlo a un gesto definitivo.
“Allora separiamoci,” rispose lui all’improvviso, e se ne andò.
Era già una settimana che viveva da sola. E aspettava. Doveva chiamarlo? Chiedergli di tornare? Ma se un uomo se ne va così facilmente, vuol dire che non ha mai amato.
Era apparso nella sua vita proprio quando si era ritrovata completamente sola. Due anni prima, l’autista di un furgone aveva avuto un infarto, aveva perso il controllo e aveva travolto la fermata dell’autobus. Sua madre e un’altra donna erano morte sul colpo, gli altri erano stati più fortunati, feriti ma vivi. L’autista era morto in ospedale quando aveva saputo di aver ucciso due persone. Infarto massivo.
La notizia era rimbalzata su tutti i telegiornali. Dopo il funerale, Ginevra camminava come in trance. Era quasi finita sotto la macchina di Marcello. Lui riuscì a frenare in tempo, scese e iniziò a gridarle contro, ma poi vide il suo viso e tacque. La riaccompagnò a casa e rimase con lei.
Lui era più giovane di tre anni. La differenza non era eccessiva, ma a Ginevra sembrava che tra loro ci fossero decenni. Lui non pianificava nulla, viveva alla giornata, scherzava via i discorsi sui figli. “Che figli? C’è tempo. Gine’, non stiamo bene insieme così?” rideva Marcello.
Lei invece voleva una famiglia normale, bambini, scegliere insieme passeggini e tutine. Quel genere di conversazioni lo irritavano.
A casa, lasciava volutamente il telefono nella borsa, per non controllarlo ogni minuto. Resisteva a stento alla tentazione di chiamarlo. Ogni mattina, prima di uscire per lavoro, controllava i messaggi col cuore in gola. Marcello non scriveva.
Un’altra sera vuota e solitaria. In televisione passava un film qualsiasi. Ginevra pensava ai fatti suoi, senza vedere cosa accadeva sullo schermo. Per questo non sentì subito la suonatina attutita provenire dall’ingresso. Impiegò un’eternità a rovistare nella borsa. Il portafoglio, la spazzola, le mille cose da donna le impedivano di trovarlo. Alla fine lo prese, ma non era Marcello a chiamare. Rispose lo stesso, pensando che forse la sua batteria fosse scarica, o che fosse finito in un incidente…
“Ginevra?” una voce femminile, non più giovane.
E all’improvviso le importò meno di chi fosse e perché chiamasse.
“Sono la vicina di tua zia Sandra. Sandra è morta stamattina.”
Quale zia Sandra? Quale vicina? Di cosa stava parlando quella donna? E poi, un ricordo d’infanzia le esplose in mente. Una donna piccola e rotonda, simile a una pagnotta. Si copriva la bocca con la mano quando rideva. Le mancavano i denti davanti – suo marito glieli aveva rotti un ubriaco. Odorava di forno e di torte.
Ginevra aspettava l’estate con impazienza per andare dalla zia Sandra. Ma sua madre le aveva detto che non ci sarebbero più andate. Non ricordava nemmeno perché. E poi si era dimenticata anche della zia Sandra.
“Mi senti?” chiese la voce estranea.
“Sì. Di cosa è morta?”
“Il medico ha detto che si è staccato un trombo. L’ospedale è nel paese vicino, i dottori non sono bravi come in città. Avremmo potuto lasciarla a casa, ma con questo caldo… Verrai?”
“Quando sono i funerali?” chiese Ginevra. Non aveva intenzione di andare da nessuna parte.
“Dopodomani, il terzo giorno, come si deve. Se non puoi, diccelo, li spostiamo…”
“No, no, verrò. Mi dica come arrivare, non ricordo,” ammise Ginevra, a fatica.
“Certo!” si rallegrò la donna. “Come potresti ricordare? Il paese è San Martino. In autobus ci vogliono due ore, in macchina meno.”
“Prenderò l’autobus,” disse Ginevra, ricordando che Marcello e la sua macchina non c’erano più.
“Compra il biglietto fino a Monteloro, l’autobus non arriva fino a noi, dovrai fare un pezzo a piedi. Vuoi che veniamo a prenderti?”
“No, grazie.”
“Vieni. Non ha nessun altro, oltre a te…”
“Non ci andrò. Perché? Non ricordo quasi niente della zia Sandra. E poi, come ha fatto questa vicina a trovare il mio numero?” – Ginevra aprì l’armadio. Le cadde l’occhio sul vestito che aveva indossato al funerale di sua madre. – “Mamma… lei ci sarebbe andata.”
Tirò fuori una gonna lunga blu con fiorellini bianchi e una maglietta nera. Il resto era troppo colorato, inadatto per un funerale. Mise tutto in una borsa.
La mattina dopo andò al lavoro e chiese tre giorni di permesso non retribuito. Come da regolamento.
“Se hai bisogno di più tempo, fammelo sapere,” disse la capa con comprensione.
Ginevra tornò a casa, preparò il necessario e partì per la stazione. L’autobus era già partito, il prossimo sarebbe passato due ore dopo. Tornare a casa non aveva senso. Uccise il tempo al bar e nei negozietti vicino alla stazione. Compra dei biscotti, dei dolci, una bottiglia di vino. Non poteva presentarsi a mani vuote. Sarebbero serviti per il dopofunerale.
Per tutto il viaggio pensò all’inutilità di quel viaggio. Quando scese dall’autobus, il sole stava calando, ma bruciava ancora implacabile. Ginevra iniziò a sudare, i vestiti le si appiccicavano alla pelle. Poco dopo, una macchina la sorpassò. Si fermò più avanti, e ne scese un uomo giovane.
“Ginevra?” le chiese.
“Sì. Come…”
“Non mi riconosci? Sono Nicola.”
Le tornò in mente un ragazzino mingherlino col raffreddore perenne. Non poteva essere che da quel ragazzetto fosse spuntato un uomo così bello.
“Salta su, ti porto. Tutti ti aspettano.”
“Me?” si stupì Ginevra.
“Eh sì. Tua zia è morta. So di tua madre. Mi dispiace. La zia Nina si disperava che non avrebbe trovato nessuno dei parenti. Invece ti ha trovata.”
“Quella che mi ha chiamato? E come ha fatto a sapere il mio numero?”
“Forse lo ha lasciato tua madre, quando è venuta qui.” Arrivarono, e Ginevra non fece in tempo a chiedere quando mai sua madre fosse tornata in quel posto.
Prima ancora di scendere dalla macchina, una donna bassE mentre Nicola sorrideva stringendole la mano, Ginevra capì che la vita, a volte, ti riporta esattamente dove devi essere.