**25 Luglio 2023**
Mi sembra che non ci siamo mai lasciati…
Ogni giorno Beatrice tornava a casa sperando che Luca fosse tornato. Sapeva che non aveva le chiavi, le aveva lasciate quando se n’era andato. Eppure sperava ancora di aprire la porta e vedere le sue scarpe da ginnastica nell’ingresso. Ma il miracolo non era accaduto neanche stavolta.
Avevano vissuto insieme due anni. Lui aveva riempito il vuoto lasciato dalla morte di sua madre. E perché mai aveva iniziato quel discorso? Tra loro non c’era mai stata passione. Stavano semplicemente bene insieme. Ma Luca non le aveva mai fatto proposte, non parlava del futuro, del *loro* futuro.
“E dopo?” gli aveva chiesto Beatrice una sera.
“Parli del matrimonio? E cosa cambierebbe?”
“Per una donna è importante. Se per te non lo è, forse è meglio lasciarci,” aveva detto, mezzo scherzando, solo per spaventarlo, per spingerlo a fare un passo avanti.
“Allora lasciamoci,” aveva risposto lui, e se n’era andato.
Era una settimana che viveva da sola. E aspettava. Doveva chiamarlo? Chiedergli di tornare? Ma se un uomo se ne va così facilmente, significa che non ha mai amato davvero.
Lui era entrato nella sua vita proprio quando si era ritrovata completamente sola. Due anni prima, l’autista di un furgone aveva avuto un infarto, aveva perso il controllo e aveva investito la fermata dell’autobus. Sua madre e un’altra donna erano morte sul colpo. Gli altri erano stati più fortunati, feriti ma vivi. L’autista era morto in ospedale quando aveva scoperto di aver ucciso due persone. Infarto esteso.
La notizia era passata su tutti i telegiornali. Dopo il funerale, Beatrice camminava come in trance. Era quasi finita sotto l’auto di Luca. Lui era riuscito a frenare in tempo, era sceso e aveva iniziato a sgridarla, ma poi aveva visto il suo viso ed era rimasto in silenzio. L’aveva portata a casa ed era rimasto con lei.
Lui era più giovane di tre anni. La differenza non era enorme, ma a Beatrice sembrava che tra loro ci fosse un decennio. Lui non programmava nulla, viveva alla giornata, e quando parlava di bambini, scuoteva la testa. “Che bambini? Abbiamo tempo, Bea. Stiamo male insieme?” rideva Luca.
Ma lei voleva una famiglia normale, bambini, scegliere insieme passeggini e body. Quelle conversazioni lo infastidivano.
A casa, lasciava il telefono nella borsa apposta, per non controllarlo ogni minuto. A stento tratteneva l’impulso di chiamarlo. Ogni mattina, prima di uscire per il lavoro, controllava i messaggi col cuore in gola. Luca non scriveva.
Un’altra sera vuota, solitaria. In TV passava un film qualunque. Beatrice pensava ai fatti suoi, distratta dallo schermo. Per questo non sentì subito la suoneria attutita provenire dall’ingresso. Impiegò un’eternità a trovare il telefono nella borsa. Il portafoglio, la spazzola, tutte le cianfrusaglie femminili si frapponevano. Finalmente lo prese, ma non era Luca a chiamare. Rispose ugualmente, pensando che magari gli fosse scaricato il telefono o che avesse avuto un incidente…
“Beatrice?” una voce femminile, anziana.
E all’improvviso smise di interessarle chi fosse e perché chiamasse.
“Sono la vicina di tua zia Francesca. È morta stamattina.”
Che zia Francesca? Che vicina? Ma di cosa stava parlando quella donna? E poi, un ricordo lampeggiò nella sua mente. Una donna piccola e rotonda, simile a una pagnotta. Si copriva la bocca con la mano quando rideva. Le mancavano i denti davanti—il marito glieli aveva spaccati ubriaco. Profumava di forno e di torte.
Beatrice aspettava l’estate con ansia per andare dalla zia Francesca. Ma sua madre le aveva detto che non ci sarebbero più tornate. Non ricordava nemmeno perché. E poi si era dimenticata della zia.
“Mi senti?” chiese la voce estranea.
“Sì. Di cos’è morta?”
“Il dottore ha detto che si è staccato un trombo. L’ospedale è nel capoluogo, i medici non sono come in città. Potevano lasciarla a casa, ma con questo caldo… Verrai?”
“Quando sono i funerali?” chiese Beatrice.
Non aveva nessuna intenzione di andare.
“Dopodomani, il terzo giorno, come si usa. Se non puoi, dillo, possiamo spostarli…”
“No, ci sarò. Mi dica come arrivare, non ricordo,” ammise a fatica.
“Certo,” rispose la donna, sollevata. “Come potresti ricordare? Il paese è Montelago. Con l’autobus ci vuole un paio d’ore, in macchina è più veloce.”
“Prenderò l’autobus,” disse Beatrice, ricordando che Luca e la sua macchina non c’erano più.
“Prendi il biglietto fino a San Pietro, l’autobus non arriva fino a noi, dovrai fare un pezzo a piedi. Vuoi che ti venga a prendere?”
“No, grazie.”
“Vieni. Non aveva nessun altro al mondo oltre a te…”
*Non ci andrò. Perché dovrei? Quasi non ricordo zia Francesca. E poi, come ha fatto quella vicina a trovare il mio numero?* Beatrice aprì l’armadio. Le cadde l’occhio sul vestito che aveva indossato al funerale di sua madre. *Mamma… Lei ci sarebbe andata.*
Tirò fuori una gonna lunga blu con fiori bianchi e una maglietta nera. Il resto era troppo colorato, inadatto per un funerale. Mise tutto in una borsa.
La mattina dopo, andò al lavoro e chiese tre giorni di permesso non retribuito. Come da protocollo.
“Se ti servono più giorni, fammelo sapere,” le disse la capoufficio con comprensione.
Beatrice tornò a casa, preparò il necessario e si diresse alla stazione. L’autobus era già partito, il successivo sarebbe arrivato solo due ore dopo. Tornare a casa non aveva senso. Uccise il tempo al bar e nei negozietti vicino alla stazione. Comprò biscotti, dolci, una bottiglia di vino. Non poteva certo presentarsi a mani vuote. Servivano per il pranzo dopo il funerale.
Per tutto il viaggio pensò all’inutilità di quel viaggio. Quando scese dall’autobus, il sole cominciava a calare, ma picchiava ancora implacabile. Beatrice si ritrovò subito sudata, i vestiti appiccicati alla pelle. Poco dopo, un’auto la superò e si fermò più avanti. Ne scese un uomo giovane.
“Beatrice?” le chiese.
“Sì. Ma come…”
“Non ti ricordi di me? Sono Matteo.”
Le tornò in mente un ragazzino mingherlino col naso perennemente colante. Non poteva essere che quel ragazzetto fosse diventato un uomo così bello.
“Salta su, ti do un passaggio. Ti stavano aspettando.”
“Me?”
“Eh sì. È morta tua zia, no? Lo so di tua madre. Mi dispiace. La signora Elena si preoccupava di non trovare nessun parente. Ma alla fine ce l’ha fatta.”
“Quella che mi ha chiamato? E come ha fatto a trovare il mio numero?”
“Forse tua madre gliel’ha lasciato quando è venuta. Siamo arrivati,” disse lui, e Beatrice non fece in tempo a chiedere quando mai sua madre fosse tornata lì.
Prima ancora di scendere dalla macchina, una donna bassa e gentile le si avvicinò.
“Ma quanto sei cresciuta!” E la abbracciò. Profumava di latte, pane e qualcos’altro che le sembrava dolorosamente familiare.E mentre stringeva tra le mani quelle chiavi antiche, capì finalmente che la casa di zia Francesca era sempre stata la sua vera casa, e Matteo il futuro che non aveva mai osato sperare.