Semplicemente lascia andare

Era una giornata fredda e ventosa. Sofia correva da scuola a tutta velocità per non congelarsi. Il suo respiro formava una nuvola di vapore che si posava sulla sciarpa, sulle ciglia e sui capelli biondi che le uscivano dal cappello, creando una patina di brina. Tra poco sarebbe arrivata a casa, avrebbe bevuto una tazza di tè caldo al limone, si sarebbe rannicchiata sul divano con le gambe raccolte e avrebbe tirato su la coperta…

Appena pensò alla calda comodità di casa, le gambe accelerarono ancora di più. Eccola al portone. Sofia tirò la porta e quasi sbatté contro la zia Anna, la vicina bassa e robusta. Non le piaceva, la trovava irritante. La zia Anna la fissava sempre con quei suoi occhietti neri e penetranti.

“Piano, monella! Mi hai quasi travolta,” borbottò la vecchia, fissandola senza pietà.

“Mi scusi,” mormorò Sofia con tono colpevole.

La donna occupava tutto lo spazio della porta e non si muoveva.

“Non riesco proprio a capire a chi somigli. Tuo padre ha gli occhi scuri, tua madre li ha azzurri, e tu… E i capelli poi. Sono alti tutti e due, e tu sei una formichina.”

“E allora?” chiese Sofia. “I figli devono per forza essere uguali ai genitori?”
Non voleva sembrare maleducata, ma non sapeva come togliersi di torno quella vicina imponente. Non poteva certo spingerla via. Si guardò alle spalle, sperando che qualcuno arrivasse al portone, ma non c’era nessuno. C’era qualcosa nello sguardo della zia Anna che la turbava. Voleva solo scappare da quegli occhi pieni di giudizio.

“Non è obbligatorio. Ma io abito qui da quando hanno costruito questo palazzo,” sospirò la donna. “Ho visto tua madre crescere. Poi si è sposata, e due anni dopo ti ha portato a casa dall’ospedale.”

Sofia ascoltava impaziente, battendo il piede, senza capire dove volesse arrivare.

“Ti ha portato a casa dall’ospedale, ma non l’ho mai vista incinta. Pensa un po’ perché non somigli a loro.” Finalmente si spostò, lasciandola entrare.

Sofia salì due gradini e trasalì quando la porta si chiuse alle sue spalle. All’improvviso, un’idea la colpì. Si fermò a metà scale. La faccia le bruciava, ma le mani erano gelide. “No, parla così solo per cattiveria. Vive sola, non ha né marito né figli, e sparge pettegolezzi. Se non l’ha vista non significa nulla,” pensò, ma non riuscì a scrollarsi di dosso quelle parole.

Salì lentamente al terzo piano del vecchio condominio, entrò in casa, si tolse il cappotto, prese l’album di famiglia e si sedette sul divano, sfogliando le foto. Eccola avvolta in una copertina di pizzo, eccola fare i primi passi, eccola con il primo fiocco tra i capelli sottili. Ed eccola al primo giorno di scuola con un mazzo di fiori così grande che quasi la nascondeva… Accanto, i suoi genitori sorridevano, guardandola con affetto.

Sentì girare la chiave nella serratura e asciugò in fretta le lacrime.

“Sofia, perché sei al buio?” Il padre entrò e accese la luce. Il lampadario s’illuminò con una luce accecante che la fece socchiudere gli occhi.

“Che succede? Hai pianto?” Si sedette accanto a lei sul divano. “Stavi guardando l’album? Dammelo.” Lo prese e iniziò a sfogliarlo.

“Papà, sono vostra figlia?” chiese piano Sofia.

“Sofia, perché dici così?” Il padre la guardò.
Nei suoi occhi lesse paura e confusione, e questo la terrorizzò ancora di più. Si liberò dalla coperta e balzò in piedi.

“Papà, dimmelo! Ho il diritto di sapere!” urlò con voce tremante, fissandolo.
Si aspettava che smentisse tutto, che le dicesse che non era vero… Ma lui distolse lo sguardo e abbassò la testa.

“Ho capito tutto.” Scappò in corridoio, infilò il cappello, calzò gli stivali e strappò il cappotto dall’attaccapanni.

“Sofia, aspetta! Dove vai? Ti spiego tutto…”
Ma lei era già fuori, sbattendo la porta con tale forza che un pezzo di intonaco cadde dal soffitto.

Corse giù per le scale, indossando il cappotto al volo e ingoiando le lacrime.

“Non ha avuto il coraggio di guardarmi negli occhi. Significa che è tutto vero. Non sono figlia loro. Di chi, allora?”

Uscì in strada e trasalì per il freddo. Il gelo le bruciò il viso bagnato. La sciarpa era rimasta all’ingresso. Niente guanti, niente soldi… Camminò in fretta. Dopo due isolati, entrò in un cortile, si sedette su una panchina coperta di neve e scoppiò in lacrime, nascondendo il viso tra le mani.

“Perché piangi? Che è successo?”
Sofia sollevò la testa e vide Luca, un ragazzo della quarta liceo.

“Dai, vieni da me e mi racconti tutto,” ordinò.

“Non… voglio…” singhiozzò Sofia.

“Dai, sciocchina, congelerai e ti ammalerai. Tanto non ti lascerò qui. Se muori, poi dovrò spiegare ai tuoi genitori perché non ti ho aiutata. Andiamo.” La prese per le mani e la tirò in piedi bruscamente. “Non aver paura, i miei sono a teatro. Prendiamo un tè e mi racconti tutto. Forse posso aiutarti.”

Sofia lo seguì. Entrò in un appartamento normale, più moderno e spazioso di quello dei suoi genitori. Luca le fece mettere le pantofole pelose della madre e le mise sulle spalle il suo maglione spesso. Mentre l’acqua bolliva, preparò le tazze, la zuccheriera e i toast.

“Ti chiami Sofia?” chiese, versando il tè.

“Sì,” rispose lei senza alzare lo sguardo.

“E allora, Sofia, cosa è successo? Perché sei scappata di casa?”

Non voleva raccontare tutto a un ragazzo che non conosceva bene. Lui frequentava un’altra classe, era un atleta, ma di lui non sapeva altro. Perché mai avrebbe dovuto confidarsi con lui? Ma tenersi dentro quel dolore era insopportabile. E così gli raccontò ciò che la vicina le aveva detto.

“Tutto qui? E per questo sei scappata?” chiese incredulo Luca.

“Per te è facile parlare. Tu hai dei veri genitori,” rispose brusca. “Non sono scappata. Solo… non potevo guardare mio padre in faccia.” Si coprì nuovamente il viso e pianse.

“Ti picchiano? Ti puniscono?” chiese Luca con partecipazione.

“No. A volte mi sgridano, ma non mi hanno mai alzato le mani.”

“Bevono?”

“Ma che dici? Mia madre è una storica dell’arte, mio padre…” Si bloccò.
Li aveva chiamati mamma e papà!

“Allora che ti manca? Non ti picchiano, non bevono, ti vogliono bene, si prendono cura di te. I genitori veri non sono quelli che ti hanno messo al mondo, ma quelli che ti hanno cresciuto, che hanno dato un’anima alla tua vita.” Luca si alzò e andò alla finestra, mettendo le mani in tasca.

“Poi, come fai a sapere se quella vecchia non ha inventato tutto per cattiveria?” chiese senza voltarsi.

“Ma mio padre non mi ha guardato negli occhi! Non mi ha detto che”Ti amo lo stesso,” sussurrò suo padre stringendola forte, mentre la neve continuava a cadere silenziosa fuori dalla finestra.

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