**Destino**
Avevo fretta di tornare a casa. Tra la neve sciolta si intravedevano chiazze di ghiaccio nascoste, e i piedi scivolavano, rallentandomi. Sulla strada, le pozzanghere stagnavano. Le macchine che passavano a velocità schizzavano fango sui passanti distratti. Mi tenevo lontana dal bordo del marciapiede.
Arrivata finalmente a casa, la schiena era madida di sudore, i piedi già doloranti dal freddo e dalla stanchezza. Erano mesi che dovevo comprarmi degli stivali nuovi.
Nell’ingresso, caddi sfiancata sullo sgabello. Tolsi gli stivali e muovevo le dita dentro i collant zuppi. Pensai che un tè caldo al limone avrebbe fatto bene, per non ammalarmi. Non feci in tempo a posare gli stivali vicino al termosifone che sentii bussare alla parete. Era mamma che mi chiamava così, picchiettando con un cucchiaio sul muro. Sospirai e andai da lei.
«Che c’è, mamma?»
Lei rispose con un grugnito incomprensibile.
«Ero a lavoro.» Mi avvicinai al letto, sistemai la coperta scivolata. Un odore di urina mi investì. “Il pannolone è pieno,” capii. Presi uno nuovo dalla confezione accanto al letto e scoprii mamma. Resistendo alla nausea per l’odore pungente, le cambiai il pannolone. Per tutto il tempo, lei continuò a borbottare. Non riusciva più a parlare.
«Finito. Adesso preparo la cena e ti do da mangiare.» Raccolsi il pannolone pesante e uscì dalla stanza, ignorando i suoi lamenti. Avevo imparato a non lamentarmi, a non tenere il broncio. Non serviva a nulla, non cambiava niente. Avrei voluto sedermi un attimo, ma mamma continuava a chiamarmi.
Una volta eravamo una famiglia normale. Papà dirigeva una cattedra all’università, mamma stava a casa con noi e lo aspettava. Poi, tutto crollò. Io avevo appena finito il liceo, mio fratello Fabrizio aveva superato gli esami del terzo anno quando papà morì.
La madre di un candidato aveva cercato di corromperlo per far entrare suo figlio. Papà presiedeva la commissione d’esame. Era integerrimo, onesto, non aveva mai usato la sua posizione per favori.
La donna, umiliata, decise di vendicarsi. Lo denunciò, dicendo che aveva accettato i soldi ma il figlio non era stato ammesso. Iniziò un’indagine. Il cuore di papà non resistette allo stress. Morì d’infarto in ambulanza.
Mamma non superò il dolore. Pian piano impazzì. Non vedeva più me e Fabrizio, passava ore sul divano a fissare il vuoto. Poi si alzava e preparava la cena. Non aveva accettato la morte di papà, ogni giorno lo aspettava dal lavoro.
Prima veniva Laura, una ragazza che puliva casa e faceva la spesa due volte a settimana. Mamma rifiutava carne e verdure del supermercato. Dopo la morte di papà, dovemmo licenziarla. Nessuno, a parte lui, lavorava. Ora toccava a me, e mamma mi trattava come una domestica. Ero stanca di spiegarle che ero sua figlia. Mi chiamava sempre Laura e mi ordinava in giro.
I risparmi finirono presto, e non erano mai stati molti. Mamma non sapeva risparmiare, comprava vestiti e gioielli. Era una donna bellissima, papà non le negava nulla.
Una volta, i colleghi di papà venivano spesso a cena. E ancora adesso mamma mi obbligava a preparare tavolate e si vestiva elegante, come se dovessero arrivare ospiti. Poi se ne dimenticava e mi rimproverava per il cibo avanzato. L’unico riposo era la scuola. Ma dovetti lasciarla.
Fu Fabrizio a dire che dovevo cominciare a lavorare. Se avesse lasciato l’università, lo avrebbero chiamato al servizio militare, sarebbe stato un peso ancora maggiore. Se si fosse laureato, avrebbe potuto aiutarmi.
All’epoca, sembrò la scelta giusta. Lasciai il liceo e trovai lavoro in un asilo. Avevo studiato musica, ero brava. La direttrice mi assunse per i giochi con i bambini. Lo stipendio era misero, ma almeno potevo tornare a casa durante la pausa pranzo.
Fabrizio, una volta laureato, se ne andò a Milano. Dimenticò presto la promessa di aiutarci. Quando gli chiesi soldi per un’infermiera, disse che anche lui faceva fatica, che doveva pagare l’affitto.
Tra noi non c’era mai stato affetto. Tutta la bellezza era toccata a lui: occhi scuri, capelli folti, lineamenti perfetti. I miei genitori si erano sposati tardi. Mamma aveva più di quarant’anni quando rimase incinta di me. Ero nata fragile, malaticcia. Bastava una corrente per farmi venire la febbre. Ero magra, insignificante, con gli occhi grigi di papà, capelli radi, labbra sottili. Di mamma non avevo ereditato nulla.
Mi guardava con dispiacere. A volte pensavo che, se avesse saputo com’ero, non mi avrebbe tenuta. Ma adorava Fabrizio.
Solo papà mi voleva bene, mi lodava per la musica. Suonavo per ore, pur di sentirmi dire che ero brava. Ma papà morì, e mamma mi trattò come una serva.
Fabrizio tornava raramente. Una volta, dopo la sua visita, aprii lo scrigno dei gioielli di mamma. Volevo vendere un anello, i soldi non bastavano. La metà era sparita. Sapevo che era stato lui. Mamma mi accusò, gridò, minacciò la polizia.
Chiamai Fabrizio. Disse di non saperne nulla e riattaccò. A mamma dissi che avevo venduto io. Si arrabbiò, ma non chiamò la polizia. Sapevo che non avrebbe mai creduto male di Fabrizio.
Un inverno, mamma indossò la pelliccia, i gioielli rimasti, e uscì per fare regali a papà e Fabrizio. Era già buio quando la trovai al parco, assiderata. L’avevano colpita, le avevano rubato tutto. Sopravvisse, ma non parlò più, camminava a stento.
Il tempo passò, mamma peggiorava. Una volta Fabrizio venne a trovarci. «Che puzza,» disse entrando. «Non ti occupi di lei.»
Non ce la feci più. «Portala a Milano, allora. Tua moglie si prenderà cura di lei.»
Fabrizio aveva famiglia, un figlio. Entrò nella stanza di mamma, ma uscì subito. Lei non lo riconobbe.
«Non si respira. Dovresti portarla in una casa di riposo.»
«È nostra madre!» dissi. «Ti adorava e tu vuoi abbandonarla?»
«Non è più lei. Guardati, sembri un’anziana. Sei una musicista, ma hai le mani da contadina.»
«Quante volte ti ho chiesto soldi per un’infermiera? E invece hai rubato i gioielli. Sei venuto per il resto? Non c’è niente. Prendi quello che vuoi e vai via.»
Fabrizio non reagì. Capii che era venuto per altro.
«Abbiamo bisogno di una casa più grande. Vendiamo questa. Con i soldi, ne compriamo una più piccola per te, io prendo il resto. Ho diritto alla mia parte.»
«E mamma? Dove vivrebbe?»
«Morirà presto. Oppure la portiamo in una struttura. Altrimenti, vado in tribunale.»
La notte pensai. LuiLa mattina dopo accettai la sua proposta, ma quando vidi la nuova casa, capii che Fabrizio aveva mentito ancora.