Semplicemente Vita

**Semplice vita**

Quando l’autobus si fermò in mezzo alla strada affollata, i passeggeri si aggrapparono più forte ai sostegni. Qualcuno imprecò, altri si appoggiarono ai vetri appannati, cercando di capire il motivo dello stop. Nell’aria si diffuse un brusio irritato e curioso. La bigliettaia, raggiunta la cabina dell’autista, aprì la porta e si bloccò, come se avesse visto qualcosa che non apparteneva a quella grigia mattina milanese.

Fuori, c’era una donna con un giubbotto rosso logoro. In una mano teneva un guinzaglio, nell’altra un ombrello con un’asta piegata. All’altro capo del guinzaglio, un cane enorme, con il pelo arruffato e il muso basso, immobile come una statua. Era seduto proprio davanti all’autobus, le zampe radicate all’asfalto, le orecchie abbassate, lo sguardo fisso a terra. Niente rabbia, né paura—solo una pesante, ostinata fermezza, come se portasse un peso impossibile da spiegare.

—Non vuole muoversi—la voce della donna tremava per lo sconcerto—. Camminavamo, e all’improvviso si è seduto. Non risponde più.

L’autista scese, osservò il cane, poi la donna, poi di nuovo il cane. Si accovacciò, guardandolo negli occhi:

—Che hai, amico? Sei stanco? O la vita ti ha schiacciato?

Il cane alzò lentamente la testa. Nei suoi occhi c’era una malinconia così umana che a tutti strinse il cuore. Non abbaiava, non ringhiava—solo fissava, come se volesse raccontare una vita intera ma non trovasse le parole. Non era semplice stanchezza. Era un dolore sordo, come un’eco in una casa vuota. L’autista si rialzò, come se avesse capito quella risposta muta.

L’autobus ripartì dopo qualche minuto. La donna, mormorando un grazie, portò via il cane. Lui camminava lentamente, insicuro, come se ogni zampa fosse estranea, ma alla fine si muoveva.

In quel momento, Alessandro, seduto vicino al finestrino, sussurrò tra sé: «Ecco, anch’io. Mi sono fermato. E non riesco ad andare avanti». Le parole gli sfuggirono piano, quasi da sole, come una confessione rimasta troppo a lungo dentro.

Scese alla fermata successiva, anche se la sua destinazione era ancora lontana. Camminava senza meta, per inerzia, come se avesse dimenticato dove stesse andando. Il vento gli sferzava il viso, si infilava sotto il colletto, ma lui non lo sentiva. Attraversò un giardino innevato, passò accanto ad alberi spogli e a una vecchia altalena che scricchiolava al vento come un ricordo lontano.

A casa non voleva tornare. Lì regnava il vuoto, un silenzio che rimbombava nelle orecchie. Non solo l’assenza di persone—l’aria stessa era immobile, intatta, senza voci né movimento. Solo il frigo ronzava in un angolo, ricordandogli che la vita continuava, anche se lui ormai era quasi spento.

Alessandro aveva quarantatré anni. Ingegnere, affidabile, invisibile come una vite in un ingranaggio. Uno di quelli che non urla, non pretende, fa solo il suo dovere. Non un eroe, non una vittima—solo un uomo. Diciassette anni di matrimonio, due figli, un mutuo da pagare, le vacanze dalla suocera in campagna. Poi—un crac. Tutto era crollato. La moglie se n’era andata. Gli aveva detto che si sentiva soffocare. Che lui era come un fantasma: presente, ma già morto. Se n’era andata senza litigare, ma con una determinazione che non lasciò dubbi.

Lui non aveva protestato. Non aveva supplicato. Era salito in macchina e aveva guidato fino a un bosco fuori città. Era rimasto lì fino all’alba, ascoltando il vento tra gli alberi. Tornato a casa, aveva cominciato a tacere sempre di più. Viveva per abitudine: lavoro, bollette, i figli il fine settimana, compleanni, biglietti del cinema. Tutto normale. Solo che dentro era vuoto, come una casa abbandonata.

Con il tempo, però, qualcosa nel petto si stringeva sempre di più. Come un cerchio di ferro che si restringeva. All’inizio appena percettibile, poi doloroso, fino a spezzargli il fiato. A volte si accorgeva di respirare a fatica, come se l’aria fosse diventata densa, estranea.

E così camminava—come quel cane. Si era fermato. Non poteva andare oltre. Non per paura o dolore, ma per l’assurdità di tutto. La stessa strada, le stesse facce, lo stesso silenzio la sera. Non voleva cambiamenti, solo una pausa—per smettere di essere se stesso, anche solo per un attimo.

Si sedette su una panchina. L’aria sapeva di terra bagnata, di pino e di qualcosa di lontano, quasi dimenticato—forse l’infanzia, forse l’inverno. Passò un ragazzo con una cassa che diffondeva una canzone sul cuore spezzato—roca ma familiare. Poi una coppia anziana: la donna sorreggeva l’uomo, e nei loro passi lenti c’era tanto affetto che Alessandro distolse lo sguardo.

«Tutti hanno qualcuno, qualcosa. Io no. E non fa nemmeno male. Come se non ci fosse mai stato niente.» I pensieri scorrevano placidi, senza amarezza, come una condanna già accettata.

—Scusi—una voce lo interruppe—. Ha un telefono? Il mio è scarico, devo chiamare mia sorella.

Davanti a lui c’era una ragazzina di undici anni. Giubbotto macchiato, lentiggini sulle guance, in mano uno zaino sbiadito.

—Certo— le porse il telefono.

Lei si allontanò, parlò veloce e tornò.

—Grazie. Perché è qui seduto da solo?

—Riposo— rispose, senza sapere perché si giustificasse.

—Ah. Solo che sembra… triste. Il mio vicino sta così quando la ragazza di Bologna non gli scrive. È innamorato, ma non parla. Lei di chi è innamorato?

Alessandro trasalì. La domanda lo colpì come un fulmine—all’improvviso, ma preciso. Nel petto sentì una stretta, come se il cuore avesse ricordato di essere ancora vivo.

—Di nessuno. E tu perché sei qui da sola?

—Non sono sola. La nonna è lì sulla panchina, dormicchia. Sono andata a comprare il pane. Grazie ancora. Non sia triste, va bene? Mia mamma dice: quando uno sta zitto e pensieroso, è perché sta cercando di rimettersi in ordine dentro. È quello che fa lei?

Annui, quasi senza volerlo.

—Sì.

—Allora andrà tutto bene. Ciao!

Se ne andò di corsa, leggera come una scintilla, lo zaino che le ballava dietro come un piccolo faro. Alessandro rimase lì. E all’improvviso sentì qualcosa nel petto che si alleggeriva. Come se qualcosa si fosse mosso—non tutto, ma qualcosa di essenziale, come un ingranaggio che finalmente trova la sua posizione.

Si alzò. Si stirò. Inspirò più profondamente del solito. E si rimise a camminare—senza fretta, ma con più fermezza, come se ogni passo avesse ritrovato un senso. Il vento gli sferzava ancora il collo, ma non gli sembrava più un nemico.

Non era successo niente di speciale. Nessuna rivelazione, nessun miracolo. Solo un giorno qualunque. Un cane. Una ragEra sufficiente, forse, per ricordargli che anche una vita semplice può riaccendersi, un passo alla volta.

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