Sempre in contatto La mattina di Nadia era sempre uguale. Il bollitore sulla cucina a gas, due cucchiaini di tè nel vecchio teiera panciuto che aveva gelosamente conservato da quando i figli erano piccoli e il mondo sembrava tutto da vivere. Mentre l’acqua scaldava, accendeva la radio e ascoltava le notizie a metà, ritmando gesti ormai antichi di comfort. Le voci dei giornalisti le erano diventate più familiari di certi volti visti in giro. Sul muro, l’orologio con le lancette gialle scandiva il tempo con costanza, ma la suoneria del telefono fisso sotto di esso si sentiva sempre meno. Una volta squillava ogni sera: amiche che si chiamavano per parlare della fiction del momento o dei problemi di pressione. Ora, invece, le amiche erano malate, si erano trasferite dai figli a Milano, Bologna, Roma… oppure erano semplicemente andate via per sempre. Il telefono stava in un angolo, pesante, la cornetta liscia che si adattava perfettamente al palmo: Nadia la carezzava passando, come per assicurarsi che fosse ancora vivo quel modo di comunicare. I figli, invece, usavano solo il cellulare. O meglio, tra di loro si chiamavano spesso, perché quando venivano a trovarla avevano sempre in mano lo smartphone. Il figlio, nel mezzo di una conversazione, poteva interrompersi di colpo e fissare lo schermo, borbottare “Un attimo”, e cominciare a digitare. La nipotina Chiara, magrissima e con una lunga treccia, praticamente non lasciava mai il telefono: lì c’erano amici, giochi, note, musica. Tutti, ormai, stavano là dentro. Lei invece aveva un vecchio cellulare a tasti, comprato quando per la prima volta finì in ospedale per la pressione. “Così possiamo chiamarti sempre,” aveva detto il figlio allora. Il telefono stava nella sua custodia grigia su una mensola in ingresso. A volte lo dimenticava scarico, a volte finiva nella borsa tra fazzoletti e scontrini. Squillava poco e, quando lo faceva, Nadia spesso non premeva il tasto giusto in tempo e poi si rimproverava per la lentezza. Quel giorno compiva settantacinque anni. Una cifra che non sentiva sua: dentro si percepiva più giovane di almeno una decina d’anni, forse quindici. Ma la carta d’identità non mente. La mattina seguiva il solito percorso: tè, radio, qualche esercizio per le articolazioni consigliato dalla dottoressa al consultorio. Poi tira fuori dal frigo l’insalata che aveva preparato e mette in tavola la torta; i figli avevano promesso di arrivare per le due. Ancora si stupiva che adesso il compleanno lo organizzassero in qualche “chat” e non per telefono. Il figlio le aveva detto: — Noi e Arianna risolviamo tutto sulla chat di famiglia, te la faccio vedere. Ma non lo aveva mai fatto. Chat sembrava una cosa per gente che vive in piccoli riquadri e comunica attraverso lettere digitali. Alle due, arrivarono. Prima il nipote Marco, con lo zaino e le cuffie; dietro di lui la tranquilla Chiara, poi il figlio con la moglie, entrambi carichi di borse. In casa, all’improvviso, aria di festa: profumo di dolce preso in pasticceria, di profumo francese e di un sentore fresco, moderno, che lei non sapeva definire. — Auguri, mamma! — il figlio la strinse forte e veloce, come se avesse fretta. I regali sul tavolo, i fiori in vaso. Chiara chiese subito la password del Wi-Fi. Il figlio, sbuffando, tirò fuori il foglietto dalla tasca e iniziò a dettarle una serie di numeri e lettere che a Nadia fecero girare la testa. — Nonna, perché non sei nel chat? — domandò Marco togliendosi le scarpe ed entrando in cucina. — È lì che succede tutto. — E quale chat sarebbe? — fece lei, offrendogli una fetta di torta. — Mi basta quel cellulare. — Mamma, — intervenne Arianna, la nuora, — è proprio questo il motivo per cui… — Si scambiarono un’occhiata. — Abbiamo un regalo per te. Il figlio tirò fuori dal sacchetto una scatola bianca e lucida con una decorazione elegante. Nadia sentì il classico brivido d’ansia: aveva già intuito cosa ci fosse dentro. — Smartphone, — annunciò il figlio, come se fosse una diagnosi. — Uno buono, niente di eccessivo, ma con tutto: fotocamera, internet, tutto quello che serve. — Ma a che mi serve? — chiese, tenendo la voce ferma. — Come, a che serve? Possiamo videochiamarci, — replicò Arianna rapida, con quel tono sicuro tipico dei giovani. — Sulla chat di famiglia condividiamo foto e novità. Adesso si fa tutto così. Prenotazioni mediche, bollette. E tu, ogni volta ti lamenti delle code alla ASL. — Ma io mi arrangio… Il figlio sospirò. — Mamma, così siamo più tranquilli. Se hai bisogno scrivi subito, oppure ti scriviamo. Non dovrai più cercare il vecchio cellulare e ricordare il tasto verde. Sorrideva, cercando di addolcire la situazione. Ma lei sentiva fastidio: “Ricordare il tasto verde”, come se fosse già arrivata a non combinare più nulla. — Va bene, — disse abbassando gli occhi sulla scatola. — Se proprio ci tenete. La aprirono insieme, come si fa coi regali dei bambini, solo che ormai i bambini erano loro e lei al centro, non più regina della festa ma quasi sotto esame. Tiro fuori il rettangolo nero e sottile: freddo e lucido, senza nemmeno un tasto. — Tutto touch, — spiegò Marco. — Basta toccare, guarda. Passò il dito sul vetro e lo schermo si accese di icone colorate. Nadia trasalì. Sembrava qualcosa di troppo furbo che le avrebbe chiesto password, login, codici strani. — Non aver paura, — disse Chiara con inusuale dolcezza. — Sistemiamo tutto noi, tu non toccare niente finché non ti spieghiamo. Quelle parole ferirono più di ogni altra cosa, come a un bambino cui vietano di toccare i bicchieri di cristallo. Dopo pranzo, tutti in salotto. Il figlio accanto a lei, smartphone sulle ginocchia. — Questo è il tasto accensione. Premi e tieni. Viene fuori la schermata, poi blocco. Per sbloccare scorri col dito. Così. Tutto troppo veloce, parole come una lingua straniera. — Aspetta, facciamo con calma, che dimentico. — Ma no, vedrai che ti ci abitui, — minimizzò lui. Lei annuì, ma sapeva che non sarebbe stato così facile. Il mondo si era infilato in questi rettangoli, e ora anche lei doveva imparare a entrarci. A sera l’avevano già “iscritta” coi numeri dei figli, dei nipoti e della vicina Maria e della dottoressa. Messenger, account, chat di famiglia, caratteri grandi. — Qui scriviamo, — mostrava il figlio. — Provo a scrivere qualcosa. Scrisse, e apparve il suo messaggio. Poi quello di Arianna: “Evviva mamma tra noi!” E così via, le faccine della nipote. — E io? Come faccio? — Premi qui, — il figlio indicò il campo. — Compare la tastiera, scrivi. O usi la voce, microfono, parli e invii. Lei provò, con le dita tremanti: invece di “grazie” venne fuori “gragzie”. Il figlio rise, la nuora pure, la nipote mandò altre faccine. — Sbagliano tutti all’inizio, — rassicurò il figlio, vedendola tesa. Annui, ma dentro sentì vergogna. Un esame fallito. Quando se ne andarono, la casa tornò quieta. Sul tavolo resti di torta, fiori, la scatola bianca: lo smartphone, schermo in giù. Lo voltò con cautela, premette il tasto. Lo schermo si illuminò, con la foto di famiglia a Capodanno: lei di sbieco, in abito blu, un sopracciglio sollevato, già indecisa probabilmente se stare al passo nel gruppo. Passò il dito: icone ovunque. Telefono, messaggi, fotocamera… Si ricordò delle raccomandazioni: “Non premere troppo”. Ma cosa era troppo? Lo rimise giù e pensò, che il telefono si ambientasse pure in casa. Il giorno dopo si svegliò prima del solito. Guardò il nuovo telefono: era lì, estraneo, ma la paura di ieri più leggera. Era solo un oggetto; le cose s’imparano. Aveva imparato pure la microonde. Fece il tè, si sedette e accese il telefono con la mano sudata. Di nuovo la foto di Capodanno. Passò il dito, cercò la cornetta verde: quella almeno era vicina ai ricordi. Prese coraggio e chiamò il figlio. — Pronto, — la voce era sorpresa. — Tutto a posto? — Sì, volevo provare. Funziona. — Visto? — rise. — Brava! Meglio chiamare su WhatsApp, costa meno. — E come? — Te lo spiego poi, sono al lavoro. Riagganciò, cuore in gola ma soddisfatta: era riuscita da sola. Dopo qualche ora, primo messaggio in chat: “Nonna, come va?” dalla nipote. Campo da scrivere, tastiera piccola. “Tutto bene. Sto bevendo tè” — un errore nella parola “bene”, ma lo lasciò uguale. Inviò. Subito la nipote: “Grande! Hai scritto tu?” e un cuore. Sorrise. Aveva scritto lei, e i suoi pensieri erano tra le righe della chat. Verso sera la vicina Maria portò una marmellata. — Ho sentito che i tuoi ti hanno regalato quel… coso… telefono intelligente, — sorridendo. — Smartphone, — rispose lei, la parola troppo moderna, ma ormai sua. — E va? Non morde? — Solo squilla, — sospirò. — È tutto diverso. Niente bottoni. — Mio nipote insiste, dice che senza non si fa nulla. Io credo che sia tardi. Lascio che si arrangino. “Tardi” la punse al cuore. Ci aveva pensato anche lei. Ma ora aveva davanti qualcosa che forse diceva il contrario: non è mai tardi. Almeno per provare. Passarono i giorni. Il figlio la chiamò: “Ti ho prenotato la visita dal medico online.” — Online? — Sì, tramite “Sportello Digitale”. Te li ho scritti login e password, sono nel cassetto sotto il telefono. Nadia trovò il foglietto accurato. Era come una ricetta: facile in teoria, mistero nella pratica. Il giorno dopo si decise: accese il telefono, trovò il browser, seguì i passaggi. Digitare indirizzo, password, login: ogni lettera una piccola battaglia. Poi il sito si caricò. “Inserisci login e password.” Il login, ok; la password, una confusione di lettere e numeri. Si confondeva, perdeva il campo, si innervosiva. Alla fine prese il fisso, chiamò il figlio: — Non ci riesco con queste vostre password! — Non ti agitare, mamma. Stasera passo con Marco, lui ti spiega meglio. — Ma ogni volta così, e quando ve ne andate io resto qui sola col telefono. Silenzio. — Lo so, — disse. — Tra lavoro e tutto… Passo con Marco, lui è bravo. Quando Marco arrivò, si sedette accanto. Spiegò senza fretta, indicando i tasti, i passi da seguire, come cambiare lingua, come annullare la prenotazione se serviva. — Se sbagli, basta ricominciare. Nessuna tragedia. Lei sapeva che per lui era solo “da rifare”, per lei una sfida vera. Passò una settimana, e la mattina si sentì male. La visita dal medico era tra due giorni, ma la prenotazione sembrava sparita dal sito. Panico. Le venne voglia di chiamare il figlio, ma temeva di essere di nuovo una zavorra. Si impose di gestire la cosa da sola: riaprì il sito, navigò tra le opzioni, trovò il nome del medico, la data prenotabile, confermò. Lo schermo mostrò: “Prenotazione effettuata”. Lesse più volte per sicurezza. Aveva fatto tutto da sola. Poi, per essere certa, scrisse al medico nel chat (il figlio le aveva salvato il contatto): “Buongiorno, sono Nadia. Ho la pressione alta. Ho preso appuntamento online per dopodomani. Se c’è possibilità, mi tenga d’occhio.” Pochi minuti dopo il medico rispose: “HO VISTO LA PRENOTAZIONE, SE PEGGIORA CHIAMI SUBITO.” Tensione sciolta. Ce l’aveva fatta. La sera scrisse nella chat di famiglia: “Ho prenotato dal medico da sola. Sul sito.” Sbagliò una parola, ma lasciò così. Subito la nipote: “Wow! Sei più brava di me.” Poi la nuora: “Mamma, sono fiera di te.” E infine il figlio: “Visto che ce la facevi?” Nadia sorrideva. Non era ancora parte delle loro conversazioni veloci e delle faccine, ma tra lei e loro ora c’era un filo sottile. Poteva tirarlo, ricevere risposta. Dopo la visita decise di imparare altre cose. La nipote aveva raccontato di condividere foto di cibi e gatti nelle chat con le amiche. A Nadia sembrava buffo e un po’ sciocco, ma in fondo le mancava quella vita di “immagini del giorno”. In una mattina di sole fotografò i vasetti di pomodori sul davanzale e inviò la foto nella chat: “I miei pomodori crescono”. Le risposte arrivarono: Chiara mandò la foto della sua stanza piena di libri, Arianna un’insalata e la scritta “Imparo da te”, il figlio un selfie stanco: “Mamma ha i pomodori, io i rapporti. Chi vince?” Rideva: la cucina non era più vuota, lei sentiva la famiglia vicina. Certo, non sempre era tutto perfetto. Annunci vocali spediti per sbaglio (“Sembravi la conduttrice di un programma!” riso il figlio), domande in chat pubbliche invece che private (“Come si cancella una foto?”), ancora confusione con le icone e gli aggiornamenti, terrori da “sistema da aggiornare”. Ma piano piano il timore diminuiva. Ormai cercava da sola orari degli autobus, il meteo, persino una torta simile a quella della mamma, trovata su Internet. Aveva fotografato la ricetta scritta a mano e l’aveva inviata. Il telefono fisso era lì, ma non più unico ponte col mondo: ne sentiva un altro, invisibile, ma saldo. Una sera, guardando il cielo che si scuriva dietro le finestre, Nadia si sedette con il telefono e rilesse la chat di famiglia. Foto dal lavoro del figlio, selfie della nipote, battute del nipote, messaggi pratici della nuora. In mezzo, le sue risposte: foto dei pomodori, annuncio vocale, domanda sui farmaci. Si accorse che non era più una spettatrice dietro un vetro. Capiva solo metà delle loro parole e non sapeva usare le faccine come loro, ma la leggevano, le rispondevano, le mandavano cuori. Arrivò un messaggio: “Nonna, domani verifica. Ti chiamo dopo per lamentarmi?” Scrisse, con attenzione: “Chiama. Io ascolto sempre.” E inviò. Posò il telefono accanto alla tazza di tè. La quiete non era più solitudine: tra le mura della città, la aspettavano messaggi e chiamate. Non era parte della “movida digitale”, ma aveva trovato il suo spazio nel mondo digitale. Sorseggiò il tè, andò a spegnere la luce, e si voltò per guardare il telefono: piccolo rettangolo nero, sereno sul tavolo. Ora sapeva che, volendo, avrebbe potuto sfiorarlo e trovare una voce amica. E per ora, questo le bastava.

7 giugno

Le mie mattine iniziano sempre nello stesso modo. Sul fornello metto la moka, due cucchiaini di miscela nel suo serbatoio, quella panciuta che mi accompagna dai tempi in cui i bambini erano piccoli e sembrava che tutto fosse possibile. Mentre lacqua si scalda e il caffè sprigiona il suo profumo, accendo la radio in cucina. I notiziari scivolano tra le piastrelle e i mobili, familiari come voci di vecchi amici. Ormai i visi cambiano, ma le voci restano.

Sul muro ci sono lorologio con le lancette gialle, e sotto, il telefono fisso che squilla sempre meno. Una volta suonava ogni sera: le chiacchiere con la vicina Maria sul nuovo episodio della telenovela, le lamentele sullumidità delle ossa o la pressione che va su e giù. Adesso Maria e le altre chiamano di rado, qualcuna si è trasferita dai figli a Milano o Firenze, qualcuna non chiama più perché se nè andata per sempre. Il telefono, pesante, con la cornetta che si adatta bene alla mano, lo accarezzo passando come si fa con un vecchio gatto: per essere sicura che sia ancora lì, pronto a collegare con il mondo.

I figli invece chiamano solo al cellulare. O meglio, si chiamano tra loro; quando vengono a trovarmi, hanno sempre gli smartphone tra le dita. Mio figlio Alessandro a volte interrompe una conversazione, si fissa nel piccolo schermo, mormora Un attimo e inizia a digitare. Mia nipote Bianca, magrolina con la coda di cavallo, non lo lascia mai; dentro ci sono amici, giochi, lezioni, musica. Ormai tutto succede lì dentro.

Io invece ho un vecchio cellulare a tastiera, comprato quando sono finita in ospedale per la pressione alta per la prima volta.

Così possiamo chiamarti quando serve, aveva detto Alessandro.

Il telefono vive in una custodia grigia, sulla mensola allingresso, ma spesso dimentico di ricaricarlo e se lo metto in borsa finisce sotto i fazzoletti e gli scontrini del supermercato. Quando squilla, di rado, non sempre riesco a premere il tasto giusto e poi mi rimprovero a lungo per la lentezza.

Oggi ho compiuto settantacinque anni. Un numero che non mi appartiene. Dentro mi sento più giovane, forse di dieci anni, magari quindici. Ma il documento dice la verità. La mattina è una carezza di abitudini: caffè, radio, qualche esercizio per le articolazioni che mi ha insegnato la dottoressa dellambulatorio. Dal frigorifero prendo linsalata del giorno prima e preparo la crostata. I figli hanno promesso di arrivare per pranzo alle due.

Mi stupisce ancora il fatto che ora i compleanni si organizzano con i messaggi nei gruppi invece che con il telefono. Una volta Alessandro ha detto:

Noi con Angelica decidiamo tutto nella chat di famiglia. Prima o poi ti insegno.

Non lo ha mai fatto. Chat: parola strana, sembra di un mondo dove la gente vive dentro finestrelle e parla con lettere sullo schermo.

Sono arrivati puntuali alle due. Prima in ingresso è apparso mio nipote Matteo, lo zaino e le cuffie al collo, subito dopo Bianca, silenziosa come un soffio; poi Alessandro e Angelica, carichi di borse. In casa, allimprovviso, il rumore e lodore di cornetti freschi, il profumo di Angelica e uno scentore nuovo, una freschezza che non saprei descrivere.

Auguri, mamma, dice Alessandro abbracciandomi di fretta, come se dovesse correre altrove.

I regali si accumulano sul tavolo, i fiori finiscono in un vaso. Bianca chiede subito la password del Wi-Fi. Alessandro si infila le mani in tasca, sfila un foglietto e gliela detta: una serie di numeri e lettere che mi fanno girare la testa.

Nonna, ma perché non stai mai nella chat di famiglia? chiede Matteo, scalciando via le scarpe e dirigendosi in cucina. Lì succede tutto.

Quale chat, sbuffo spingendogli il piatto della crostata. Il telefono mi basta e avanza.

Mamma, interviene Angelica, in realtà il regalo di oggi centra con questo! si scambiano uno sguardo. Ti abbiamo preso una cosa.

Alessandro tira fuori una scatolina bianca, liscia, decorata con riflessi argento. Sento subito lansia montare: ho capito cosa contiene.

Uno smartphone, annuncia lui, come sentenziasse una diagnosi. Non costa troppo ma è buono. Ha la telecamera, internet, tutto quello che serve.

Ma perché proprio a me? chiedo cercando di non tremare nella voce.

Mamma, per parlare in video, dice Angelica rapida e decisa. Nel gruppo di famiglia condividiamo foto, notizie. E poi, oramai tutto passa per internet: prenotazioni con il medico, bollette. Ti lamentavi pure delle code allAsl.

Me la cavo anche senza, provo a dire, ma vedo Alessandro sospirare, riservato.

Noi siamo più tranquilli. Se ti serve qualcosa scrivi, oppure noi ti scriviamo. Così non devi cercare il cellulare con i tasti e capire dove sta il verde.

Sorride cercando di essere gentile, ma mi sento pungere. Capire dove sta il verde, come se fossi inutile.

Daccordo, concedo guardando la scatola. Se proprio ci tenete.

Apriamo la scatola tutti insieme, come quando erano piccoli. Ora invece sono grandi, raccolti intorno a me, mentre io mi sento ragazzina davanti a un maestro severo. Nella scatola cè un rettangolo nero e sottile, freddo e liscio. Niente tasti visibili.

Qui è tutto touch, spiega Matteo. Basta sfiorare così.

Passa il dito sul vetro e lo schermo si illumina di icone colorate. Mi spavento: sembra una cosa troppo intelligente, adesso mi chiederà password, login o altre parole che non capisco.

Non temere, dice Bianca dolcemente. Ti sistemiamo tutto noi. Non toccare niente finché non ti spiego.

Quelle parole mi fanno male come un rimprovero a un bambino che rischia di rompere la porcellana.

Dopo pranzo tutta la famiglia si trasferisce in salotto. Alessandro si siede vicino a me sul divano, lo smartphone sulle mie gambe.

Ecco, comincia. Questo è il tasto accensione, tieni premuto. Arriva la schermata, poi il blocco. Per sbloccare, scorri il dito. Così.

Va troppo veloce, e le parole mi si confondono nella mente. Tasto, schermata, blocco. Una lingua straniera.

Piano, lo fermo. Andiamo per gradi, se no dimentico.

Ti abitui presto, ride lui. È semplice.

Annuisco, ma so già che avrò bisogno di tempo. Tempo per farci pace, accettare che il mondo vive qui dentro e che anchio devo imparare a entrare.

Verso sera il telefono è già pieno di numeri: figli, nipoti, vicina Maria e la dottoressa. Alessandro installa WhatsApp, crea laccount, mi aggiunge al gruppo famiglia. Imposta le lettere grandi così non devo strizzarmi gli occhi.

Guarda, mi mostra. Qui scriviamo. Adesso invio qualcosa.

Lo fa in un attimo. Sullo schermo appare il messaggio di Alessandro. Subito sopra, uno di Angelica: Evviva, mamma è con noi! Poi quello di Bianca: una sfilza di emoticon colorate.

E io come faccio? chiedo. Come scrivo?

Tocchi qui, indica lo spazio bianco, si apre la tastiera. Scrivi. Oppure registri la voce, basta toccare il microfono.

Provo. Le dita tremano. Invece di grazie viene fuori gratzie. Alessandro ridacchia, anche Angelica. Bianca manda altre emoticon.

Tranquilla, dice Alessandro vedendo che mi irrigidisco. Allinizio sbagliamo tutti.

Annuisco, ma dentro mi vergogno. Sembra un esame fallito.

Quando se ne vanno, la casa torna silenziosa. Restano la crostata, i fiori e la scatola bianca. Lo smartphone è lì, schermo in giù. Lo rigiro delicatamente. Premo il tasto come insegna mio figlio. Si accende una luce soffusa, appare la foto di famiglia del Capodanno passato. Mi vedo di lato con il vestito blu e il sopracciglio sollevato, come se anche allora avessi avuto dei dubbi su quel posto accanto a loro.

Scorro il dito come mi hanno insegnato. Appaiono le icone. Telefono, messaggi, fotocamera. Mi ricordo che Alessandro diceva Non toccare altro. Ma come distinguo quello che è di troppo?

Alla fine appoggio lo smartphone accanto alla scatola, lo lascio lì. Che prenda confidenza con la casa.

Il mattino dopo mi sveglio prima del solito. Il cellulare nuovo è ancora lì, estraneo ma meno minaccioso. È solo una cosa, penso. Ho imparato la microonde, temendo che scoppiasse, posso imparare anche questo.

Preparo il caffè, mi siedo, prendo in mano il telefono. Accendo. La mano mi suda. Riappare la foto di famiglia. Scorro. Trovo la cornetta verde, un simbolo che riconosco, e la tocco.

Si apre la lista contatti: Alessandro, Angelica, Bianca, Matteo, Maria, la dottoressa. Seleziono Alessandro e premo. Il telefono vibra e appaiono linee sullo schermo. Lo accosto allorecchio come facevo col vecchio telefono.

Pronto? la voce di Alessandro, sorpresa. Mamma? Tutto ok?

Sì, rispondo, sentendo una strana fierezza. Volevo solo provare. Funziona.

Lo vedi? ride. Sono contento. Col messaggio però costa meno.

Come faccio? chiedo confusa.

Te lo spiego dopo, sono in ufficio.

Chiudo la chiamata con il tasto rosso. Il cuore batte come dopo una camminata veloce. Però dentro mi sento calda. Ho chiamato da sola. Non ho chiesto aiuto.

Dopo due ore arriva il primo messaggio nel gruppo famiglia. Il telefono squilla leggermente, lo schermo si accende. Sussulto. Sul display cè scritto: Bianca: Nonna, come va? Sotto, lo spazio dove rispondere.

Guardo a lungo quello spazio. Poi premo. E appare la tastiera. Le lettere son piccole, ma distinguibili. Piano digito: Tutto bene. Sto bevendo caffè. Sbarcherò in bene, ma lascio così. Invio.

Subito dopo Bianca risponde: Wooo! Hai scritto da sola? E un cuore.

Mi scopro a sorridere. Sì, da sola. Ho scritto io. Il messaggio appare dove di solito scorrono solo quelli degli altri.

Alla sera passa Maria con un vasetto di marmellata.

Ma allora, ho sentito che ti hanno regalato quel quel telefonino intelligente! dice togliendosi le scarpe.

Smartphone, correggo. Mi sembra strano dirlo alla mia età, ma lo dico con una certa soddisfazione.

E non morde? ride lei.

Per ora squilla solo, sospiro. Niente tasti.

Anche mio nipote insiste. Dice che senza quello non si va avanti. Ma io penso che ormai sia tardi. Lascio che facciano loro.

Tardi mi fa male. Ci ho pensato anchio. Ma ora quel cellulare sembra dirmi il contrario: non troppo tardi. Si può provare.

Dopo qualche giorno Alessandro mi chiama e dice che mi ha fissato la visita dal dottore online.

Via internet? chiedo stupita.

Con lo SPID. Adesso si fa così. Ho scritto login e password sul foglietto nel cassetto, sotto al telefono.

Lo trovo. Un foglio piegato con lettere e numeri. Come una ricetta: chiara ma incomprensibile.

Il giorno dopo provo. Accendo lo smartphone, cerco licona del browser come mi ha spiegato Matteo. Premo. Compare la barra bianca e il campo sopra. Scrivo pianissimo, copiando dal foglio. Ogni lettera unimpresa. Sbaglio due volte, cancello, ricomincio. Finalmente si apre la pagina. Blu e bianca, tante scritte.

Inserisci login, leggo a voce alta. Password.

Il login lo digito a fatica. Il password è peggio: lettere, numeri sfusi. La tastiera appare e scompare. Tocca sbagliare, tutto si cancella. Mi scappa una parolaccia, sorpresa della mia stizza.

Alla fine lascio perdere e prendo la cornetta del telefono fisso. Chiamo Alessandro.

Non ce la faccio, sbotto. I vostri codici sono una tortura.

Non ti arrabbiare, mi rassicura. Stasera passo, ti spiego di nuovo.

Passi, spieghi, poi te ne vai e io resto sempre sola con questa cosa.

Silenzio allaltro capo.

Capisco, dice infine. Porto Matteo. Lui te lo fa vedere con calma. È più bravo.

Accetto. Ma chiudo con il cuore pesante. Mi sembra di non sapere fare nulla da sola, di essere solo un peso.

Arriva Matteo la sera. Si leva le scarpe da ginnastica, si siede di fianco a me.

Forza nonna, dice. Fammi vedere cosa non funziona.

Riapro il sito, gli mostro lo schermo.

È tutto difficile, confesso. Le parole, i simboli. Ho paura di toccare e fare danni.

Non puoi fare danni, dice lui sereno. Al massimo esci, rientri e si sistema.

Parla tranquillo, muove le dita sicure come se fosse a casa. Mi mostra i tasti, la lingua, la sezione della prenotazione.

Vedi, indica, qui cè la tua visita. Se vuoi cancellare tocchi qui.

Se cancello per sbaglio?

Si rifà da capo, scrolla le spalle. Non è grave.

Annuisco. Per lui non è nulla, per me è un mondo.

Quando se ne va, resto con il telefono tra le mani. Mi sembra che lo schermo mi metta alla prova: ora login, ora password, ora errore di connessione. Prima bastava chiamare, fissare, andare. Ora bisogna anche sapere cosa toccare e dove leggere.

Una settimana dopo, proprio col medico capita il problema. Mi sveglio con la testa pesante, debole. La pressione sale. La visita è tra due giorni. Cerco il promemoria nel sito, come ha insegnato Matteo. Nella sezione appuntamenti, nulla.

Il cuore mi si ferma. Scorro giù e su. Niente. Ieri non ho toccato nulla. O sì? Ricordo che avevo provato a vedere come si cancella la visita. Forse ho premuto a sproposito.

Mi prende il panico. Senza prenotazione dovrò andare allAsl e aspettare ore, tra gente che tossisce. Io sto già male. Istintivamente vorrei chiamare Alessandro, ma so che questa settimana non può. Immagino il suo fastidio, Mamma non capisce ancora. Mi vergogno.

Respiro, mi fermo. Penso a Matteo, ma lui è alluniversità. Non voglio disturbare.

Guardo il cellulare. Quel piccolo rettangolo nero è problema e soluzione insieme. Riapro il sito, entro nellaccount. Le dita tremano ma cerco di essere precisa.

Niente appuntamenti. Ok. Provo a cliccare Prenota visita. Compare la lista dei medici. Seleziono il dottore, la data. La prima libera tra tre giorni, meglio di niente. Lora: mattina. Confermo e mi fermo.

Aspetto che lo schermo finisca di pensare. Appare la scritta: Prenotazione confermata. Sotto il mio cognome, la data, lora. Controllo tre volte. Mi sento più leggera. Ce lho fatta da sola. Senza Alessandro, senza Matteo.

Per sicurezza faccio ancora altro. Apro WhatsApp, trovo il gruppo con la dottoressa (aggiunta da Alessandro). Prendo coraggio, tocco il microfono.

Buongiorno, sono Lucia Rossi, dico piano, ho la pressione alta e ho prenotato una visita con voi tra tre giorni. Se può, ci vediamo.

Invio. Dentro arriva il simbolino. Dopo qualche minuto il telefono squilla. La dottoressa risponde in lettere grandi: OK, LA VEDEVO GIA. SE PEGGIORA CHIAMI SUBITO.

Mi sento positivamente stanca. La prenotazione è a posto, la dottoressa avvisata. Tutto grazie allo smartphone.

Alla sera scrivo nel gruppo: Mi sono prenotata da sola. Online. Sbaglio di nuovo, ma lascio così, limportante è farsi capire.

Risponde subito Bianca: Wow! Sei più brava di me. Poi Angelica: Mamma sei stata super, sono fiera. Alla fine Alessandro: Ecco, te lavevo detto.

Leggo e qualcosa dentro di me si rilassa. Non sono ancora immersa nei loro meme e battute, ma tra me e loro si è formata una linea di collegamento. Ora posso tirarla quando serve e ricevere risposta.

Dopo la visita, va tutto bene e decido che è ora di imparare qualcosaltro. Bianca diceva che con le amiche si scambiano foto di piatti, cani, piante. Mi sembrava sciocco, ma in fondo le invidiavo: loro hanno una piccola finestra condivisa, io solo la radio e il panorama dalla cucina.

Un pomeriggio di sole, con le piantine di pomodoro sul davanzale che brillano, apro la fotocamera. Sullo schermo compare la cucina, racchiusa in una cornice. Avvicino il cellulare alle piantine. Premo il cerchio. Un clic.

La foto è un po sfocata, ma va bene: i germogli verdi si vedono, il riflesso di luce sul tavolo. Mi sembra che quei germogli abbiano qualcosa in comune con me, si fanno strada verso il sole sulla terra ancora pesante.

Apro il gruppo famiglia, allego la foto. Scrivo: I miei pomodori crescono. Invio.

Le risposte arrivano subito. Bianca mostra la stanza piena di libri. Angelica una ciotola di insalata con la scritta Imparo da te. Alessandro un selfie in ufficio, in faccia la stanchezza, ma scrive: Mamma fa pomodori, io faccio scartoffie, chi sta meglio?

Rido davvero. La cucina non sembra più vuota. È come se fossimo tutti lì, sparsi per lItalia, ma vicini.

A volte vanno storte: mando un vocale di prova nel gruppo e si sente il mio commento acidulo al telegiornale. I nipoti ridono, Alessandro fa: Mamma, sembri la conduttrice! Mi imbarazzo, poi rido anche io. In fondo, una voce vale più di mille emoji.

Qualche messaggio finisce nel gruppo invece che privato. Una volta chiedo a tutti come si elimina una foto. Arriva la spiegazione puntuale di Matteo, un anchio non so! di Bianca, Angelica invia una gif: Mamma, sei una pioniera!

Mi inciampo ancora nei tasti, ho paura degli aggiornamenti che il cellulare propone. Aggiorna il sistema mi suona come una minaccia: chi mi garantisce che non cambi tutto proprio adesso che sto imparando?

Ma ogni giorno la paura si riduce. Scopro che posso vedere gli orari degli autobus, il meteo non solo alla radio ma anche sullo schermo. Trovo persino la ricetta di una crostata come quella che faceva la mia mamma. Faticoso cercare, ma quando leggo gli ingredienti mi viene il magone agli occhi.

Non lo scrivo nel gruppo. Cucino la crostata, la fotografo, mando la foto: Ho ricordato la ricetta di nonna. Piovono cuori, esclamazioni, e mi chiedono la ricetta. Fotografo il foglio scritto a mano e lo mando.

A un certo punto mi accorgo che il telefono fisso lo guardo meno. È sempre lì, ma non è più il mio unico filo col mondo. Ora ho un altro legame, invisibile ma resistente.

Una sera, quando fuori le luci dei palazzi si accendono piano, sto in poltrona col telefono in mano a rileggere il gruppo famiglia. Ci sono foto di Alessandro dal lavoro, selfie di Bianca con le amiche, le battute di Matteo, i messaggi di Angelica sulle cose di casa. In mezzo, anche i miei: foto di pomodori, audio con la ricetta, domande sui farmaci.

Mi accorgo che non sono più uno spettatore dietro il vetro. Non capisco metà delle sigle che scrivono, non sono capace di mettere le faccine come loro, però leggono ciò che scrivo. Mi rispondono. Le mie foto le mettono il cuore, come dice Bianca.

Squilla il telefono. Messaggio nuovo. Da Bianca: Nonna, domani ho la verifica di matematica. Posso chiamarti dopo per sfogarmi?

Sorrido. Scrivo piano: Certo. Io ti ascolto sempre. Invio.

Appoggio il telefono vicino alla tazza di caffè. In casa cè silenzio, ma stavolta non è più vuoto. Da qualche parte, tra palazzi e regioni, ci sono messaggi che mi stanno aspettando. Non faccio parte della movida giovane come dice Matteo, ma ho il mio angolo in questo mondo di schermi.

Mi alzo, preparo per la notte, spengo la luce e rifletto: ho imparato a non aver paura di cambiare. Qualcosa resta uguale il caffè nella moka, la voce di Maria ma ora so che posso prendermi il mio posto anche nel presente, un passo dopo laltro.

E questo mi basta.

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Sempre in contatto La mattina di Nadia era sempre uguale. Il bollitore sulla cucina a gas, due cucchiaini di tè nel vecchio teiera panciuto che aveva gelosamente conservato da quando i figli erano piccoli e il mondo sembrava tutto da vivere. Mentre l’acqua scaldava, accendeva la radio e ascoltava le notizie a metà, ritmando gesti ormai antichi di comfort. Le voci dei giornalisti le erano diventate più familiari di certi volti visti in giro. Sul muro, l’orologio con le lancette gialle scandiva il tempo con costanza, ma la suoneria del telefono fisso sotto di esso si sentiva sempre meno. Una volta squillava ogni sera: amiche che si chiamavano per parlare della fiction del momento o dei problemi di pressione. Ora, invece, le amiche erano malate, si erano trasferite dai figli a Milano, Bologna, Roma… oppure erano semplicemente andate via per sempre. Il telefono stava in un angolo, pesante, la cornetta liscia che si adattava perfettamente al palmo: Nadia la carezzava passando, come per assicurarsi che fosse ancora vivo quel modo di comunicare. I figli, invece, usavano solo il cellulare. O meglio, tra di loro si chiamavano spesso, perché quando venivano a trovarla avevano sempre in mano lo smartphone. Il figlio, nel mezzo di una conversazione, poteva interrompersi di colpo e fissare lo schermo, borbottare “Un attimo”, e cominciare a digitare. La nipotina Chiara, magrissima e con una lunga treccia, praticamente non lasciava mai il telefono: lì c’erano amici, giochi, note, musica. Tutti, ormai, stavano là dentro. Lei invece aveva un vecchio cellulare a tasti, comprato quando per la prima volta finì in ospedale per la pressione. “Così possiamo chiamarti sempre,” aveva detto il figlio allora. Il telefono stava nella sua custodia grigia su una mensola in ingresso. A volte lo dimenticava scarico, a volte finiva nella borsa tra fazzoletti e scontrini. Squillava poco e, quando lo faceva, Nadia spesso non premeva il tasto giusto in tempo e poi si rimproverava per la lentezza. Quel giorno compiva settantacinque anni. Una cifra che non sentiva sua: dentro si percepiva più giovane di almeno una decina d’anni, forse quindici. Ma la carta d’identità non mente. La mattina seguiva il solito percorso: tè, radio, qualche esercizio per le articolazioni consigliato dalla dottoressa al consultorio. Poi tira fuori dal frigo l’insalata che aveva preparato e mette in tavola la torta; i figli avevano promesso di arrivare per le due. Ancora si stupiva che adesso il compleanno lo organizzassero in qualche “chat” e non per telefono. Il figlio le aveva detto: — Noi e Arianna risolviamo tutto sulla chat di famiglia, te la faccio vedere. Ma non lo aveva mai fatto. Chat sembrava una cosa per gente che vive in piccoli riquadri e comunica attraverso lettere digitali. Alle due, arrivarono. Prima il nipote Marco, con lo zaino e le cuffie; dietro di lui la tranquilla Chiara, poi il figlio con la moglie, entrambi carichi di borse. In casa, all’improvviso, aria di festa: profumo di dolce preso in pasticceria, di profumo francese e di un sentore fresco, moderno, che lei non sapeva definire. — Auguri, mamma! — il figlio la strinse forte e veloce, come se avesse fretta. I regali sul tavolo, i fiori in vaso. Chiara chiese subito la password del Wi-Fi. Il figlio, sbuffando, tirò fuori il foglietto dalla tasca e iniziò a dettarle una serie di numeri e lettere che a Nadia fecero girare la testa. — Nonna, perché non sei nel chat? — domandò Marco togliendosi le scarpe ed entrando in cucina. — È lì che succede tutto. — E quale chat sarebbe? — fece lei, offrendogli una fetta di torta. — Mi basta quel cellulare. — Mamma, — intervenne Arianna, la nuora, — è proprio questo il motivo per cui… — Si scambiarono un’occhiata. — Abbiamo un regalo per te. Il figlio tirò fuori dal sacchetto una scatola bianca e lucida con una decorazione elegante. Nadia sentì il classico brivido d’ansia: aveva già intuito cosa ci fosse dentro. — Smartphone, — annunciò il figlio, come se fosse una diagnosi. — Uno buono, niente di eccessivo, ma con tutto: fotocamera, internet, tutto quello che serve. — Ma a che mi serve? — chiese, tenendo la voce ferma. — Come, a che serve? Possiamo videochiamarci, — replicò Arianna rapida, con quel tono sicuro tipico dei giovani. — Sulla chat di famiglia condividiamo foto e novità. Adesso si fa tutto così. Prenotazioni mediche, bollette. E tu, ogni volta ti lamenti delle code alla ASL. — Ma io mi arrangio… Il figlio sospirò. — Mamma, così siamo più tranquilli. Se hai bisogno scrivi subito, oppure ti scriviamo. Non dovrai più cercare il vecchio cellulare e ricordare il tasto verde. Sorrideva, cercando di addolcire la situazione. Ma lei sentiva fastidio: “Ricordare il tasto verde”, come se fosse già arrivata a non combinare più nulla. — Va bene, — disse abbassando gli occhi sulla scatola. — Se proprio ci tenete. La aprirono insieme, come si fa coi regali dei bambini, solo che ormai i bambini erano loro e lei al centro, non più regina della festa ma quasi sotto esame. Tiro fuori il rettangolo nero e sottile: freddo e lucido, senza nemmeno un tasto. — Tutto touch, — spiegò Marco. — Basta toccare, guarda. Passò il dito sul vetro e lo schermo si accese di icone colorate. Nadia trasalì. Sembrava qualcosa di troppo furbo che le avrebbe chiesto password, login, codici strani. — Non aver paura, — disse Chiara con inusuale dolcezza. — Sistemiamo tutto noi, tu non toccare niente finché non ti spieghiamo. Quelle parole ferirono più di ogni altra cosa, come a un bambino cui vietano di toccare i bicchieri di cristallo. Dopo pranzo, tutti in salotto. Il figlio accanto a lei, smartphone sulle ginocchia. — Questo è il tasto accensione. Premi e tieni. Viene fuori la schermata, poi blocco. Per sbloccare scorri col dito. Così. Tutto troppo veloce, parole come una lingua straniera. — Aspetta, facciamo con calma, che dimentico. — Ma no, vedrai che ti ci abitui, — minimizzò lui. Lei annuì, ma sapeva che non sarebbe stato così facile. Il mondo si era infilato in questi rettangoli, e ora anche lei doveva imparare a entrarci. A sera l’avevano già “iscritta” coi numeri dei figli, dei nipoti e della vicina Maria e della dottoressa. Messenger, account, chat di famiglia, caratteri grandi. — Qui scriviamo, — mostrava il figlio. — Provo a scrivere qualcosa. Scrisse, e apparve il suo messaggio. Poi quello di Arianna: “Evviva mamma tra noi!” E così via, le faccine della nipote. — E io? Come faccio? — Premi qui, — il figlio indicò il campo. — Compare la tastiera, scrivi. O usi la voce, microfono, parli e invii. Lei provò, con le dita tremanti: invece di “grazie” venne fuori “gragzie”. Il figlio rise, la nuora pure, la nipote mandò altre faccine. — Sbagliano tutti all’inizio, — rassicurò il figlio, vedendola tesa. Annui, ma dentro sentì vergogna. Un esame fallito. Quando se ne andarono, la casa tornò quieta. Sul tavolo resti di torta, fiori, la scatola bianca: lo smartphone, schermo in giù. Lo voltò con cautela, premette il tasto. Lo schermo si illuminò, con la foto di famiglia a Capodanno: lei di sbieco, in abito blu, un sopracciglio sollevato, già indecisa probabilmente se stare al passo nel gruppo. Passò il dito: icone ovunque. Telefono, messaggi, fotocamera… Si ricordò delle raccomandazioni: “Non premere troppo”. Ma cosa era troppo? Lo rimise giù e pensò, che il telefono si ambientasse pure in casa. Il giorno dopo si svegliò prima del solito. Guardò il nuovo telefono: era lì, estraneo, ma la paura di ieri più leggera. Era solo un oggetto; le cose s’imparano. Aveva imparato pure la microonde. Fece il tè, si sedette e accese il telefono con la mano sudata. Di nuovo la foto di Capodanno. Passò il dito, cercò la cornetta verde: quella almeno era vicina ai ricordi. Prese coraggio e chiamò il figlio. — Pronto, — la voce era sorpresa. — Tutto a posto? — Sì, volevo provare. Funziona. — Visto? — rise. — Brava! Meglio chiamare su WhatsApp, costa meno. — E come? — Te lo spiego poi, sono al lavoro. Riagganciò, cuore in gola ma soddisfatta: era riuscita da sola. Dopo qualche ora, primo messaggio in chat: “Nonna, come va?” dalla nipote. Campo da scrivere, tastiera piccola. “Tutto bene. Sto bevendo tè” — un errore nella parola “bene”, ma lo lasciò uguale. Inviò. Subito la nipote: “Grande! Hai scritto tu?” e un cuore. Sorrise. Aveva scritto lei, e i suoi pensieri erano tra le righe della chat. Verso sera la vicina Maria portò una marmellata. — Ho sentito che i tuoi ti hanno regalato quel… coso… telefono intelligente, — sorridendo. — Smartphone, — rispose lei, la parola troppo moderna, ma ormai sua. — E va? Non morde? — Solo squilla, — sospirò. — È tutto diverso. Niente bottoni. — Mio nipote insiste, dice che senza non si fa nulla. Io credo che sia tardi. Lascio che si arrangino. “Tardi” la punse al cuore. Ci aveva pensato anche lei. Ma ora aveva davanti qualcosa che forse diceva il contrario: non è mai tardi. Almeno per provare. Passarono i giorni. Il figlio la chiamò: “Ti ho prenotato la visita dal medico online.” — Online? — Sì, tramite “Sportello Digitale”. Te li ho scritti login e password, sono nel cassetto sotto il telefono. Nadia trovò il foglietto accurato. Era come una ricetta: facile in teoria, mistero nella pratica. Il giorno dopo si decise: accese il telefono, trovò il browser, seguì i passaggi. Digitare indirizzo, password, login: ogni lettera una piccola battaglia. Poi il sito si caricò. “Inserisci login e password.” Il login, ok; la password, una confusione di lettere e numeri. Si confondeva, perdeva il campo, si innervosiva. Alla fine prese il fisso, chiamò il figlio: — Non ci riesco con queste vostre password! — Non ti agitare, mamma. Stasera passo con Marco, lui ti spiega meglio. — Ma ogni volta così, e quando ve ne andate io resto qui sola col telefono. Silenzio. — Lo so, — disse. — Tra lavoro e tutto… Passo con Marco, lui è bravo. Quando Marco arrivò, si sedette accanto. Spiegò senza fretta, indicando i tasti, i passi da seguire, come cambiare lingua, come annullare la prenotazione se serviva. — Se sbagli, basta ricominciare. Nessuna tragedia. Lei sapeva che per lui era solo “da rifare”, per lei una sfida vera. Passò una settimana, e la mattina si sentì male. La visita dal medico era tra due giorni, ma la prenotazione sembrava sparita dal sito. Panico. Le venne voglia di chiamare il figlio, ma temeva di essere di nuovo una zavorra. Si impose di gestire la cosa da sola: riaprì il sito, navigò tra le opzioni, trovò il nome del medico, la data prenotabile, confermò. Lo schermo mostrò: “Prenotazione effettuata”. Lesse più volte per sicurezza. Aveva fatto tutto da sola. Poi, per essere certa, scrisse al medico nel chat (il figlio le aveva salvato il contatto): “Buongiorno, sono Nadia. Ho la pressione alta. Ho preso appuntamento online per dopodomani. Se c’è possibilità, mi tenga d’occhio.” Pochi minuti dopo il medico rispose: “HO VISTO LA PRENOTAZIONE, SE PEGGIORA CHIAMI SUBITO.” Tensione sciolta. Ce l’aveva fatta. La sera scrisse nella chat di famiglia: “Ho prenotato dal medico da sola. Sul sito.” Sbagliò una parola, ma lasciò così. Subito la nipote: “Wow! Sei più brava di me.” Poi la nuora: “Mamma, sono fiera di te.” E infine il figlio: “Visto che ce la facevi?” Nadia sorrideva. Non era ancora parte delle loro conversazioni veloci e delle faccine, ma tra lei e loro ora c’era un filo sottile. Poteva tirarlo, ricevere risposta. Dopo la visita decise di imparare altre cose. La nipote aveva raccontato di condividere foto di cibi e gatti nelle chat con le amiche. A Nadia sembrava buffo e un po’ sciocco, ma in fondo le mancava quella vita di “immagini del giorno”. In una mattina di sole fotografò i vasetti di pomodori sul davanzale e inviò la foto nella chat: “I miei pomodori crescono”. Le risposte arrivarono: Chiara mandò la foto della sua stanza piena di libri, Arianna un’insalata e la scritta “Imparo da te”, il figlio un selfie stanco: “Mamma ha i pomodori, io i rapporti. Chi vince?” Rideva: la cucina non era più vuota, lei sentiva la famiglia vicina. Certo, non sempre era tutto perfetto. Annunci vocali spediti per sbaglio (“Sembravi la conduttrice di un programma!” riso il figlio), domande in chat pubbliche invece che private (“Come si cancella una foto?”), ancora confusione con le icone e gli aggiornamenti, terrori da “sistema da aggiornare”. Ma piano piano il timore diminuiva. Ormai cercava da sola orari degli autobus, il meteo, persino una torta simile a quella della mamma, trovata su Internet. Aveva fotografato la ricetta scritta a mano e l’aveva inviata. Il telefono fisso era lì, ma non più unico ponte col mondo: ne sentiva un altro, invisibile, ma saldo. Una sera, guardando il cielo che si scuriva dietro le finestre, Nadia si sedette con il telefono e rilesse la chat di famiglia. Foto dal lavoro del figlio, selfie della nipote, battute del nipote, messaggi pratici della nuora. In mezzo, le sue risposte: foto dei pomodori, annuncio vocale, domanda sui farmaci. Si accorse che non era più una spettatrice dietro un vetro. Capiva solo metà delle loro parole e non sapeva usare le faccine come loro, ma la leggevano, le rispondevano, le mandavano cuori. Arrivò un messaggio: “Nonna, domani verifica. Ti chiamo dopo per lamentarmi?” Scrisse, con attenzione: “Chiama. Io ascolto sempre.” E inviò. Posò il telefono accanto alla tazza di tè. La quiete non era più solitudine: tra le mura della città, la aspettavano messaggi e chiamate. Non era parte della “movida digitale”, ma aveva trovato il suo spazio nel mondo digitale. Sorseggiò il tè, andò a spegnere la luce, e si voltò per guardare il telefono: piccolo rettangolo nero, sereno sul tavolo. Ora sapeva che, volendo, avrebbe potuto sfiorarlo e trovare una voce amica. E per ora, questo le bastava.