Si vergogna di noi: come mio figlio ha dimenticato chi lo ha cresciuto

Si vergogna di noi: come mio figlio ha dimenticato chi l’ha cresciuto

Nella cucina nuova, bianchissima, in un appartamento perfetto con finestre panoramiche all’undicesimo piano, Matteo sorseggiava lentamente il suo caffè profumato in una tazzina costosa. Indossava un completo fresco di stiratura, i capelli impeccabili, il viso sereno e sicuro di sé. Era abituato a questa vita—presentabile, senza intoppi, senza ricordi del passato. All’improvviso, il citofono suonò. Fece una smorfia: non era il momento giusto. Appoggiò la tazzina sul tavolo di marmo e si avviò a malincuore verso la porta.

“Chi è?”

“Sono io, figliolo… tua mamma.”

Si irrigidì all’istante. Oltre la soglia, curva per il freddo, c’era una donna con un vecchio piumino, una sciarpa sopra il cappello di lana. In mano stringeva una borsa piena di conserve fatte in casa, salumi, miele, barattoli legati con strofinacci. Sotto l’orlo del vestito si intravedevano scarpe logore. Le labbra le tremavano non tanto per il gelo, quanto per l’emozione.

“Mamma? Perché non mi hai chiamato?” chiese a denti stretti, guardandosi attorno di sfuggita, sperando che nessun vicino la vedesse.

“Figlio, il tuo numero non risponde. Sono venuta lo stesso—c’è un problema. Non possiamo farcela senza di te…”

Sospirò, fece un passo indietro e la fece entrare nell’ingresso. Le prese il gomito, la spinse rapidamente dentro e sbatté la porta. I suoi occhi cercavano una soluzione—come nasconderla?

Matteo viveva a Milano da anni. Si era laureato con lode, assunto subito in una grande azienda. Contatti, un po’ di fortuna e determinazione avevano fatto il resto—la sua carriera era decollata in fretta. Dai genitori, che vivevano in un paesino vicino a Parma, si faceva vedere a malapena. Ogni tanto una telefonata—a Natale o a Pasqua. Il passato lo imbarazzava, lo teneva nascosto. Di certo non ne andava fiero.

“Cos’è successo, mamma?” chiese freddamente, mentre lei cercava di togliersi i guanti.

“Il tuo nipote, il piccolo Luca, sta male. Marco e Giulia non ce la fanno più. È nato il secondo, lei non lavora, e tuo fratello ti mandava i soldi ogni mese quando studiavi… Figliolo, se potessi aiutarli, anche solo un po’…”

Stava per rispondere quando il citofono suonò di nuovo. Si voltò di scatto.

“Stai zitta!” sibilò. “Non farti vedere, per l’amor del cielo!”

Chiuse la porta della camera da letto e corse ad aprire. Sulla soglia c’era il suo collega, Roberto.

“Sentì, Matteo, il portiere ha detto che è arrivata tua madre?” fece l’occhiolino. “Ma tu non dicevi che i tuoi sono morti in un’incidente in Brasile?”

“Ah! Si sarà confuso. Era una vecchietta sbagliata, si è persa. Ho già sistemato tutto,” scosse la mano con noncuranza. “Senti, potresti passare al supermercato? Aspetto Carola, la figlia del capo. Dobbiamo organizzare una cena perfetta. Potrebbe esserci qualcosa di serio tra noi.”

Gli strizzò l’occhio e lo spinse fuori, chiudendo la porta alle sue spalle. Tornando indietro, lanciò un’occhiata alla camera da letto. Sua madre era seduta sul bordo del letto, rannicchiata, gli occhi vitrei. Aveva sentito tutto.

“Figlio… davvero hai detto che siamo morti?” chiese con la voce spezzata. “Perché menti così? Chi ti ha insegnato questa vergogna?”

Aggrottò le sopracciglia.

“Mamma, basta. Quanto gli serve?”

“Quattrocento…” mormorò.

“Mila euro?”

“Ma che dici! Solo euro normali…”

“E hai rovinato la mia serata per questa miseria? Tieni, cinquanta. E non presentarti più così, ti prego. Ho una vita diversa ora. Siamo persone diverse.”

Le chiamò un taxi, le prese una stanza nel più economico hotel vicino alla stazione e le comprò il biglietto di ritorno. Si congedò senza nemmeno guardarla.

A notte fonda, entrò in camera con Carola. La ragazza si sedette sul letto, si guardò intorno, e improvvisamente lo sguardo le cadde su quella borsa.

“Cos’è questa roba? Matteo, puzza!”

“La domestica, combinaguai come al solito. Porta sempre robaccia. Questo mese le taglio il bonus,” disse svogliatamente, voltandosi dall’altra parte.

Intanto, in un vagone sgangherato di un treno regionale, sua madre tornava a casa. Guardava fuori dal finestrino i lampioni sfrecciare e ingoiava le lacrime. Non faceva che chiedersi: dove avevano sbagliato? In che momento l’avevano perso, quel figlio che ora si vergognava del loro odore, delle loro mani, della loro vita?

E perché l’amore con cui lo avevano cresciuto si era trasformato in così tanto dolore…

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