Silenzio, com’è
Quando Giulia disse «mi sono stancata di stare zitta», non urlò. Semplicemente posò il cucchiaio sul tavolo, guardò fuori dalla finestra e lo pronunciò — con calma, quasi come se fosse un fatto quotidiano. Come quando si dice «è ora di portare fuori la spazzatura» o «ho dimenticato di comprare il latte». Senza drammi, ma in modo che la stanza divenne all’istante sorda, come se qualcuno avesse spento il suono.
Alessandro alzò gli occhi dal telefono, ma non capì subito cosa fosse successo. Aveva sentito la sua voce, ma il significato gli arrivò un attimo dopo, come un suono dall’altra parte dell’acqua. La guardò, poi di nuovo lo schermo — come se tra loro ci fosse un vetro, e attraverso di esso non si distinguesse nulla.
«Di cosa stai parlando?»
«Di noi. Di come viviamo. In silenzio.»
Non rispose. Riguardò lo schermo. Gli passò per la mente: «eccoci di nuovo». Eppure «di nuovo» non c’era. Lei era rimasta in silenzio a lungo. Troppo a lungo. E lui lo sapeva, ma fingeva di non accorgersene. Comodo. Senza litigi. Senza pause. Solo che adesso la pausa era diventata eterna.
Vivevano insieme da sette anni. C’era stato di tutto: viaggi, litigate, film stupidi, amici, ristrutturazioni. Discutevano per sciocchezze, si riappacificavano di notte in cucina, dividevano una torta a metà, dicevano stupidaggini all’unisono. Poi — come se qualcuno avesse spento il volume. Non subito. Gradualmente. Prima smisero di ascoltarsi fino in fondo. Poi — di dire tutto quello che pensavano. Smisero di chiamarsi durante il giorno. Poi smisero di chiedersi «come stai». Poi semplicemente vivevano. Cucina pulita, bollitore acceso, bollette sul tavolo. Senza sapore. Senza motivo. Senza «noi».
«Non mi sento più qui, Ale.» Continuava a guardare fuori dalla finestra. «È come se non ci fossi.»
Lui voleva dire qualcosa di importante. Che la sentiva. Che non era così. Che era solo stanco, solo preso dal lavoro. Che l’amava, ma aveva perso le parole. Ma le parole non arrivavano. Non perché non l’amasse — ma perché da tempo non le pronunciava ad alta voce. E si era disabituato ad ascoltarsi.
Giulia si alzò, mise la tazza nel lavandino. Poi indossò la giacca. Prese le chiavi. Uscì. Lui non la trattenne. Non sapeva nemmeno se dovesse farlo. E questa era la cosa più spaventosa. Non i suoi passi verso la porta, non il rumore della serratura, ma quanto fosse facile che accadesse. Senza urla. Senza un «rimani». Troppo facile, come se niente di importante andasse perduto.
Camminava per strada, e la neve sotto i piedi scricchiolava, come in un film. La gente intorno procedeva veloce, nessuno si guardava. Giulia si fermò al semaforo e per la prima volta da molto tempo si sentì al proprio posto. Non nel senso di «dove doveva essere», ma semplicemente — qui e ora. Né nel passato, né nelle fantasie. Era una strana, quieta pace, come se il corpo avesse finalmente raggiunto l’anima.
Quella sera non andò né da un’amica né dalla madre. Semplicemente vagò per la città, girando dove i piedi la portavano. Entrò in una panetteria dove lei e Alessandro amavano sedersi. Comprò una brioche ai semi di papavero. Si sedette al tavolo vicino alla finestra, senza togliersi la giacca. Si sentiva odore di cannella, vaniglia e qualcosa di dimenticato da tempo. E per la prima volta da molto, non aveva voglia di discutere, spiegare, analizzare. Voleva solo vivere quella serata. Solo per sé. Senza un ruolo. Senza spettatori.
Alessandro le scrisse due giorni dopo. Senza enfasi. Solo: «Dove sei?». Come se fosse casuale, come se non fosse dettato dalla nostalgia, ma dall’abitudine. Lei rispose: «Vivo». Senza punto. Senza emozioni. Così, e basta. Lui non scrisse più. E lei non aspettò. Non perché non volesse, ma perché per la prima volta nella vita aveva sentito: poteva anche non aspettare.
Passarono due settimane. Poi un mese. Prese in affitto un appartamento in periferia, con grandi finestre e vista su un parcheggio dove al mattino gridavano i gabbiani. Iniziò a fare passeggiate mattutine — non perché dovesse, ma perché il corpo chiedeva movimento. Prese l’abitudine di scrivere sul taccuino tre righe al giorno. Non di sentimenti. Solo — cosa vedeva. Chi aveva sorriso. Dove era silenzioso. Come erano le mani della cassiera. Che odore c’era sul tram. Era il suo modo di essere nel momento, dove tutto accadeva per la prima volta, senza abitudini, senza Alessandro.
A volte pensava a lui. Non con rabbia. Non con nostalgia. Solo — come a una persona con cui un tempo aveva condiviso il respiro. Con cui aveva guardato gli stessi film, riso delle stesse piccole cose. Poi ognuno aveva cominciato a guardare il proprio schermo. Con cui era stato. Con cui era diventato. E finito. Senza drammi. Senza un finale. Senza parole eclatanti. Solo come accade. Come una canzone che si spegne in una stanza quando nessuno preme «ripeti». Silenzio, com’è.
A volte, tutto ciò che serve — non è «torna», non è «capiscimi», non è «ascoltami». A volte, tutto ciò che serve — è smettere di aspettare che qualcuno parli per te. E iniziare a parlare da soli. Anche se insicuri. Anche se non subito. Ma ad alta voce. Per tornare a sentire se stessi. Per essere.