Sognavo la felicità e pianificavo il futuro, ma ho ricevuto solo insulti!

Sognavo la felicità, facevo progetti per il futuro, e invece ho ricevuto solo insulti!

Mi chiamo Elena Conti e vivo a Cortina d’Ampezzo, dove le Dolomiti custodiscono le sue stradine tranquille. L’ho incontrato di nuovo alla riunione degli ex alunni, dopo 20 anni. Sergio era lì davanti a me, un po’ più largo di spalle, con i capelli spettinati, ma i suoi occhi – grandi, profondi, pieni di quella stessa malinconia – mi trapassavano come una volta. Mi invitò a ballare, proprio come quando eravamo una coppia. Ho sentito il suo calore, il suo respiro, la sua forza – e il mio corpo ha tremato, come se il tempo fosse tornato indietro. Quella notte è entrato di nuovo nei miei sogni e ho capito che il vecchio amore non era morto.

Perché ci siamo lasciati? Non ricordo. Per tre anni abbiamo vissuto come marito e moglie, progettando il futuro: una casa con giardino, un piccolo negozio di fiori e candele, inventando nomi per i nostri figli – Maria, Elia… E poi è sparito, senza parole, senza traccia, lasciandomi nel vuoto. Alla riunione, dopo un paio di bicchieri di vino e balli, entrambi sapevamo che era un’opportunità per ricominciare. Sei mesi dopo mi sono trasferita da lui a Bologna, a casa sua. Sua moglie era morta, e io non ho mai trovato qualcuno con cui costruire un nido. All’inizio tutto andava bene, ma i sogni di felicità si sono trasformati in un incubo.

Volevo amore e ho ottenuto solo umiliazioni. Sergio aveva due figli – di 16 e 18 anni, Lorenzo e Marco. Non cercavo di diventare loro madre – sarebbe stato sciocco. Volevo solo amicizia, comprensione reciproca, che mi accettassero nella loro vita. Ho fatto del mio meglio: li accudivo, cucinavo, compravo regali, rinunciavo alla pace in casa. Ma al calore è subentrato il gelo. È andato tutto peggiorando quando arrivavano i genitori della loro madre defunta. Li rispettavo come potevo, facevano parte della famiglia. Ma ogni loro visita diventava una prova: mi guardavano come un’estranea e mi sentivo un’ombra.

Avevo 38 anni, non mi ero abituata alla nuova città, alle persone estranee, alla loro casa. Le continue prove di compiacere tutti mi stavano sfinendo. Soffocavo nel disordine lasciato dai ragazzi, nella loro indifferenza. Il maggiore, Lorenzo, ha iniziato a portare la sua ragazza quando ero al lavoro. Si sdraiavano nella nostra camera da letto, nel nostro letto, sporcavano le lenzuola. Lei usava le mie creme, il mio pettine, le mie pantofole, devastava la cucina al punto che passavo ore a ripulire il caos che lasciava. Il minore, Marco, si lamentava sempre: i vestiti che gli compravo non andavano bene, il cibo non era come quello di sua madre. “Sei solo una casalinga, stai a casa a non fare nulla”, mi urlava in faccia. Ho sopportato finché ho potuto. E quando cercavo di parlare con Sergio, mi liquidava come se le mie parole non contassero.

Sognavo di fare amicizia con i vicini – si dice che siano più vicini dei parenti. Ma anche lì trovai delusione: tutti parlavano di quanto fosse perfetta la sua defunta moglie. E io? Io sono viva, l’ho amato per tutti questi anni, ho lasciato tutto – lavoro, città, vita abituale – per lui e la sua famiglia. Decisi: se avrò un bambino, tutto cambierà, inizieranno a rispettarmi. Ma quando ne parlai, Sergio tagliò corto: “Ho già dei figli, non ne voglio altri”. E io? Sono rimasta a mani vuote, con un sogno di maternità che lui calpestò.

Dopo di ciò, tutto andò a rotoli. Sergio cambiò, non era più quel ragazzo della mia giovinezza. La vita aveva consumato il suo calore, e mi guardava con irritazione. Trovava in me difetti, mi criticava come facevano i suoi figli. Ho fatto del mio meglio, ma tutto era inutile. La pazienza si ruppe quando tornai dal lavoro e vidi la ragazza di Lorenzo nel mio accappatoio. Camminava per casa come se fosse la padrona, ma era mia – personale, come la biancheria che poteva indossare alle mie spalle! Mantenei la calma e dissi sottovoce: “Non toccare le mie cose, per favore.” E lei mi rise in faccia: “Dai, non fare la difficile!” Perché mi trattava così? L’avevo nutrita, avevo pulito per lei come fosse mia, e lei sputa sulla mia anima.

Perdi la calma, scappai dalla stanza. Sergio uscì dalla cucina, paonazzo di rabbia, e mi aggredì urlando. Ero lì, senza parole, incredula. Mi chiamava pigra, urlava di uscire da casa sua, mi lanciava contro cose – una tazza, un libro, quello che trovava. Gli occhi velati di lacrime, presi la borsa e corri fuori com’ero. Presi il primo treno per Cortina d’Ampezzo, dai miei genitori. La mattina seguente inviò le mie cose per corriere – freddamente, senza una nota, come spazzatura.

Il tempo guarisce, dicono. Cerco di non pensarci. Il dolore si attenua, ma la ferita rimane. Credo che troverò qualcuno che mi ami – per quello che sono, con i miei sogni e le mie cicatrici. Sergio è stato il mio primo amore, ma non il mio destino. Volevo la felicità e ho ottenuto solo frammenti. Ora sono a Cortina d’Ampezzo, tra le strade familiari, e sto imparando a respirare di nuovo, sperando che ci sia luce davanti a me e non nuove umiliazioni.

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