Una volta ho sognato di venire da te e dirti che ti amo…
Alessandra Rossi posò l’ultimo quaderno corretto sulla pila in cima alla scrivania. Ora doveva solo inserire i voti nel registro. Fuori dalla finestra della sala insegnanti era buio da un pezzo, e i fiocchi di neve cadevano pigramente sotto la luce dei lampioni.
Sentì un tonfo metallico dietro la porta, seguito dallo schiaffo umido di una straccio sul pavimento. Era la signora Maria, la custode, che tutti chiamavano affettuosamente “zia Maria”, salita al secondo piano a lavare i corridoi. Vedendo la striscia di luce sotto la porta della sala insegnanti, borbottò abbastanza forte da farsi sentire:
«Eccoli qui fino a notte fonda, a calpestare i pavimenti appena lavati. Non potrebbero andarsene a casa?»
La scopa scricchiolò sul linoleum, come per darle ragione.
«Nessuno mi aspetta a casa, cara zia Maria. Dovrai sopportarmi per ancora mezz’ora», sospirò fra sé Alessandra, aprendo il registro di classe.
Dopo quaranta minuti, lo chiuse con un colpo secco, lo ripose sullo scaffale accanto agli altri e tende l’orecchio. Non si era nemmeno accorta che il rumore fuori era cessato. Indossò il cappotto davanti allo specchio, afferrò la borsa, diede un’occhiata alla sala insegnanti e spense la luce. I pavimenti erano ancora umidi e luccicavano al fioco chiarore della lampadina alla fine del corridoio.
Scese al pianoterra. Anche la postazione del guardiano era deserta. Entrò nel suo sgabuzzino, appese la chiave al muro dietro una porta di vetro.
«Sono uscita! Ho chiuso la sala insegnanti, la chiave è al suo posto!» gridò, rompendo il silenzio della scuola ormai addormentata.
Nessuno rispose, nessuno venne a controllare. Ma sapeva che la scuola non era mai vuota. Di notte c’era sempre qualcuno, un custode o un guardiano.
«Arrivederci!» salutò forte, prima di uscire.
Dopo qualche passo, si voltò e vide il vecchio guardiano chiudere il portone dall’interno.
Il ghiaccio scivoloso del cortile, segnato da centinaia di scarpe di studenti, era già coperto da un velo di neve fresca. Alessandra attraversò con cautela il cortile e uscì dal cancello di ferro.
La strada era deserta da ore, persino le macchine erano rare. Affrettò il passo verso casa.
Alessandra, detta Ale, aveva sempre giocato a fare l’insegnante fin da bambina, tra bambole e amiche. Che altro poteva diventare, con una madre che insegnava italiano e letteratura? Dopo il liceo, entrare all’università di pedagogia era stato naturale.
Al suo corso c’erano pochi ragazzi, e quelli che c’erano guardavano solo le ragazze più belle, categoria in cui Ale non si includeva. Così, alla laurea, non aveva né un marito né nemmeno un fidanzato.
Non se ne crucciava troppo, c’era tempo. Ale sembrava più giovane della sua età, tanto che spesso la scambiavano per una liceale. Sua madre, invece, si preoccupava: secondo lei, la professione di insegnante lasciava il segno sul carattere, e più tempo passava, più sarebbe stato difficile trovare un compagno adatto. I genitori le avevano comprato un appartamento, dandole libertà.
Ma cosa farci, se anche il corpo docente della scuola era quasi tutto femminile? A parte il professore di ginnastica, che avrebbe amato chiunque pur di non restare solo, il docente di educazione civica – un ex militare con tre nipoti – e due anziani custodi, le possibilità erano scarse.
«Che tu non debba fare la mia stessa fine: sposarti tardi e avere un unico figlio a quarant’anni», ripeteva spesso sua madre.
Ma forse preoccuparsi non serviva a trovare un marito.
Molte finestre delle case brillavano di lucine natalizie. Ale non aveva intenzione di mettere un albero a casa sua. A che pro? Tanto avrebbe festeggiato dai genitori, come sempre. Gira l’angolo di una stradina tranquilla e, a un tratto, sentì dei passi alle sue spalle. Una fitta di inquietudine. Si voltò.
A qualche metro di distanza camminava un uomo giovane. Non riusciva a distinguergli il volto, nascosto dall’ombra del cappuccio. Ale strinse più forte la borsa e accelerò.
Arrivata al primo palazzo, svoltò dietro l’angolo e si appoggiò al muro, trattenendo il respiro. Passarono secondi interminabili, ma l’uomo non riapparve. Alla fine, Ale sbirciò e si ritrovò faccia a faccia con lui.
«Che vuole? Perché mi segue? Chiamo la polizia!» disse con voce tremante. «Aiuto!» aggiunse, per convincerlo.
L’uomo si tolse il cappuccio.
«Professoressa Rossi, sono io, Gabriele Bianchi», disse, sorridendo.
«Gabriele?» Ale non riconobbe subito quel giovane alto e prestante, un ex allievo del suo primo anno d’insegnamento. «Vuoi rapinarmi?» chiese, gli occhi sgranati dal panico.
«Ma no, figuriamoci. Vi accompagno a casa da giorni. Con questo buio e questi vicoli poco illuminati, meglio non rischiare. Oggi avete tardato più del solito.»
«Mi accompagni spesso?» chiese Ale. «Non me n’ero accorta. Oggi è stato un giorno lungo», aggiunse, pensierosa. «Stavo correggendo i compiti e inserendo i voti.»
«Avete già fatto l’albero a scuola?» domandò Gabriele, sempre sorridente.
«Sì, ieri.» Finalmente anche Ale sorrise.
«Quanto mi piaceva quando mettevano l’albero vero in corridoio, con quel profumo di festa e regali. E quanto era difficile studiare negli ultimi giorni prima di Natale», commentò lui, con un tono nostalgico. «Su, vi accompagno a casa.»
«Non serve, Gabriele», obiettò Ale, ormai tranquilla. «È qui a due passi.»
«Non abbiate paura. È così tanto che non ci si vede. Da vicino, intendo», aggiunse Gabriele, serio.
Camminarono per la strada vuota. Ale gli chiese della sua vita, del lavoro. Gabriele le raccontò di fare un po’ di tutto, dal riparare computer a venderli. Aveva in mente di aprire un negozio con un amico.
«Lo conoscete, è SergE quando il primo giorno di primavera arrivò, con i fiori che sbocciavano nei vasi del loro balcone, Ale sorrise al pensiero che forse sua madre aveva ragione: il destino, a volte, si nasconde nei corridoi della scuola e ti viene incontro con un sorriso e un albero di Natale sotto il braccio.