Una mattina di febbraio, Caterina stava alla finestra, osservando l’asfalto bagnato che emergeva dai resti di neve. Il tempo era grigio, silenzioso, e quel silenzio trasmetteva qualcosa di opprimente. Il suo sguardo scivolò sul cortile, sulla piazzetta dove una volta accompagnava il figlio alla leva militare e la figlia a scuola. Adesso erano bambini estranei, famiglie estranee, vite che non le appartenevano più.
“Ecco, sembra sia arrivata la mia vecchiaia,” sussurrò Caterina. “Tranquilla, solitaria, non prevista.”
Il grande tavolo da pranzo in salotto era vuoto. Quello stesso dove lei e Pietro sognavano di accudire i nipoti nei fine settimana, preparare minestroni, riunire la famiglia. Ma Pietro se n’era andato troppo presto. E i nipoti… esistevano, ma vivevano lontani.
Bianca, la figlia, era partita per l’estero ormai da tempo. Lì aveva opportunità, un lavoro, un’altra vita. Non aveva mai invitato la madre a seguirla. Paolo, il più giovane, abitava in città, ma dall’altra parte—in un quartiere elegante. Passava a trovarla. A volte. Una volta al mese. Nei weekend la prendeva per un paio d’ore—a bere un caffè, a chiacchierare con i bambini. Aveva due gemelli, Alessandro e Leonardo, già in prima elementare.
Il dolore nel cuore di Caterina non veniva dalla vecchiaia, ma dal vuoto. Prese un vecchio album. La foto del matrimonio: Pietro, giovane, con la camicia bianca, una chitarra tra le mani. Ah, come cantava… Come lei lo aveva amato. Come tutto allora era diverso—vivo, luminoso, pieno.
Un brusco suono di notifica la strappò dai ricordi. Un messaggio sui social: “Caterina, ciao! Festeggio il mio compleanno, riuniamo la nostra classe. Vieni, è obbligatorio!”
Era Luisa, la sua amica del liceo. Caterina esitò. Cosa avrebbe potuto raccontare? Casa, pensione, rare chiamate dei figli. Ma alla fine ci andò. Era pur sempre un compleanno. Una serata. Un’occasione.
Sette ex compagni di scuola. Calore, risate. Luisa, quella stessa Luisa, correva dalla cucina con stuzzichini, brindisi, ricordi. Caterina aiutava, sorrideva. Rivivevano le gite nei boschi, i falò, gli zaini, le marachelle di scuola. E all’improvviso—il campanello.
“Oh, Enrico! È arrivato!” esclamò Luisa correndo ad aprire.
Nella stanza entrò un uomo—elegante, con i capelli grigi ben curati, i baffi, un portamento sicuro. Salutò, strinse la mano agli uomini e, sorridendo, si rivolse a Caterina:
“Ciao, Caterinetta! Quanti anni, quante stagioni!”
Lei lo fissò perplessa. Non lo riconobbe. Poi, di colpo—l’illuminazione.
“Ma sei tu, Rico! Abbiamo condiviso il banco dalla prima alla quinta elementare!”
Caterina rise. Si ricordò. Un monello vivace, rumoroso, quello che il padre le aveva detto di evitare. E invece—avevano passato cinque anni l’uno accanto all’altra. Adesso lui era diverso. Calmo, interessante, con una gentilezza negli occhi.
Chiacchierarono tutta la sera. Lui le raccontò di aver vissuto in un’altra città, di aver insegnato, poi di essersi lasciato—la moglie era scappata con un amico. Il figlio, ormai grande, era rimasto là. Lui invece—eccolo, tornato a casa. Sentiva la mancanza del posto dove era cresciuto.
Quando gli ospiti iniziarono ad andarsene, Luisa propose con malizia:
“Caterina, resta qui, aiutami a lavare i piatti.”
“No, no. Vado a casa. È vicino.”
“Ti accompagno io,” disse improvvisamente Enrico.
E camminarono insieme. Caterina gli prese il braccio e avanzarono nella notte di febbraio, tra leggeri fiocchi di neve illuminati dai lampioni.
“Quest’inverno è mite,” commentò lui.
“Sì, è vero,” rispose lei sorridendo.
“Pensavo facesse freddo qui. Invece è caldo. Sai perché?”
“Perché?”
“Perché ci sei tu.”
Arrivarono davanti al suo palazzo. Restarono sotto il portone a parlare, ridere. Era così leggero, così insolito quel calore nel cuore. Come da giovani.
Quando rientrò, il telefono squittì di nuovo.
“Andiamo al cinema domani, Caterinetta?”
Lei guardò lo schermo, strinse il telefono al petto e sorrise.
Non c’era più spazio per la solitudine nella sua vita.