Solo a 55 anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di persone per cui non conti nulla.
— Hai comprato di nuovo il pane sbagliato, — la voce di mia nuora Valentina mi trafisse le orecchie mentre svuotavo le buste della spesa in cucina. — Ti avevo chiesto quello senza lievito. È la quinta volta che te lo dico.
Prese il filone con due dita, come se fosse un insetto velenoso, e lo rigirò con aria disgustata.
— Vale, mi sono dimenticata, scusa. Avevo la testa tra le nuvole.
— È sempre così, Anna Maria. Poi tocca a noi mangiar sta roba. Matteo potrebbe avere un’allergia.
Appoggiò il pane sul tavolo con un’espressione che sembrava dire: «Guarda che ti sto facendo un favore a non buttarlo direttamente nel secchio».
Ingoiai il nodo che mi saliva in gola. Mio nipote Matteo aveva sei anni e non aveva mai avuto allergie al pane normale in vita sua.
Mio figlio Luca sbucò dalla porta.
— Mamma, hai visto il mio maglione blu?
— Sì, Luca. È in lavatrice, ieri l’ho…
— Perché? — mi interruppe. — Dovevo metterlo oggi! Dai, mamma!
Sparì senza aspettare una risposta, lasciandomi il suo «dai, mamma» risuonare in testa come uno schiaffo. Avevo lavato i suoi vestiti. Mi ero presa cura di lui. Eppure, ancora una volta, ero io quella sbagliata.
Mi avviai lentamente verso la mia camera, passando per il salotto dove Valentina stava già al telefono a raccontare all’amica quanto «la suocera sia di nuovo fuori di testa». Le risate dall’altra parte erano taglienti quanto le sue parole.
La mia stanza sembrava l’unico posto sicuro in quella casa un tempo accogliente, ora ronzante come un alveare.
Voci continue, urla di bambini, la TV sempre accesa, porte che sbattevano. Rumore. Gente. E una solitudine da far impazzire.
Mi sedetti sul letto. Per tutta la vita avevo avuto paura di rimanere sola. Di ritrovarmi in stanze vuote quando i miei figli se ne sarebbero andati. Che sciocca che ero stata.
Solo a cinquantacinque anni ho capito che la cosa più spaventosa non è una casa vuota, ma una piena di persone per cui non conti nulla.
Sei un accessorio gratuito. Una funzione difettosa che serve solo a passare l’aspirapolvere, fare la spesa, lavare i piatti — ma sempre nel modo giusto, non nel tuo. Un passo a destra, uno a sinistra, e sei già di troppo, fastidiosa, ingombrante.
Quella sera provai ancora. Luca era assorto nel suo laptop.
— Luca, possiamo parlare?
— Mamma, non vedi che sono occupato? — nemmeno alzò gli occhi dallo schermo.
— Volevo solo…
— Dopo, va bene?
Ma quel «dopo» non arrivò mai. Lui e Valentina avevano la loro vita, i loro piani, le loro conversazioni. Io ero… lo sfondo. Come un divano vecchio o una lampada sbiadita. Presente, ma invisibile.
Bussarono alla porta. Era Matteo.
— Nonna, leggimi? — mi porgé un libro.
Il cuore mi balzò di gioia. Ecco il mio raggio di sole. L’unico per cui…
— Matteo! — Valentina apparve sulla soglia. — Ti ho detto di non disturbare la nonna! Vieni, è ora del tablet.
Gli prese il libro e lo trascinò via.
Rimasi seduta, fissando la porta chiusa. E in quel momento capii: non potevo più essere solo uno sfondo. Qualcosa doveva cambiare. Altrimenti, mi sarei dissolta tra le pareti di quella casa come un’ombra.
La decisione non arrivò subito. Maturò in me per giorni, mentre lavavo i piatti meccanicamente, facevo la spesa e ingoiavo silenziosamente ogni frecciatina.
Si consolidò definitivamente quando vidi nella spazzatura una pentola quasi piena del mio risotto — «troppo grasso, siamo a dieta».
Decisi di iniziare dal piccolo. Dal mio spazio.
Sabato mattina, mentre tutti dormivano, tirai fuori dalle scatole le cose di mio marito defunto. Libri, attrezzi, vecchie foto. Le disposi in salotto, sul tavolo grande. Volevo creare un angolo della memoria, appendere il suo ritratto.
Valentina fu la prima a scendere. Si bloccò sulla porta, come avesse visto un topo.
— Ma che diavolo è questa roba?
— Buongiorno, Vale. Sto sistemando alcune cose.
— Lo vedo. Non potevi farlo in camera tua? Hai messo sottosopra il salotto. Oggi abbiamo ospiti, tra l’altro.
— È anche il mio salotto, — risposi calma ma ferma. E mi sorpresi di quanto suonasse deciso. — E queste sono le cose di tuo suocero. Il padre di Luca.
Sbuffò e si diresse in cucina, sbattendo la caffettiera. Dieci minuti dopo arrivò Luca, attirato dall’odore del caffè e dalla «rivoluzione» di mamma.
— Mamma, che casino è questo? Vale dice che hai riempito tutto.
— Volevo solo appendere il ritratto di papà. Qui, — indicai il muro.
— Qui? — guardò prima il muro, poi me. — Ma sei impazzita? Abbiamo un arredamento moderno. Che ritratto? Vale ha già scelto uno specchio firmato.
Ecco. Uno specchio. Alla moda. Più importante della memoria di suo padre.
— Luca, questa è casa mia.
— Ecco, ci risiamo, — alzò gli occhi al cielo. — Il solito discorso. Anche noi viviamo qui! E abbiamo fatto i lavori!
I «lavori» si erano ridotti a una mano di vernice verde pastello in cucina.
— E io voglio che questa casa resti una casa, non un corridoio con specchi firmati.
Quella sera vennero insieme. Seri, tesi. Si sedettero di fronte a me.
— Mamma, abbiamo pensato, — iniziò Luca con voce zuccherosa. — Questa casa è troppo grande per noi. Le bollette sono salate, pulire è un’impresa.
Valentina riprese, fissandomi:
— Sì, Anna Maria. È per il tuo bene. Sarà dura per te gestire tutto da sola quando noi e Luca ci trasferiremo.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
— E dove vi trasferireste?
— Vogliamo vendere la casa, — disse Luca. — Compreremo un appartamento nuovo. E per te un monolocale. Piccolo, accogliente. Ma tutto tuo.
Li guardai alternativamente. Non scherzavano. Avevano già deciso. Già diviso mentalmente i soldi della vendita della mia casa. La mia fortezza. La mia vita.
— Vendere… casa mia?
— Tua subito? — ridacchiò Valentina. — Anche noi viviamo qui, contribuiamo. Vuoi che lavoriamo tutta la vita per mantenere questo rudere?
Mi alzai. Le gambe tremavano, ma mi tenni dritta.
— No.
— Cosa «no»? — Luca fece una smorfia. — Mamma, è vantaggioso per tutti.
— Ho detto no. Questa casa non si vende. Mai.
Lo guardai dritto negli occhi. Nel suo sguardo c’era solo irritazione e freddo calcolo. La maschera della famiglia amorevole era caduta. Non ero solo di troppo.
Ero un ostacolo al loro «futuro felice». E loro erano pronti a spazzarmi via. A qualsiasi costo.
Il mio «no» rimase sospeso nell’aria. La faccia di Luca si tinse di rosso. Valentina, al