Solo la vita

La Vita Comune

Quando l’autobus si bloccò nel bel mezzo di una via trafficata, i passeggeri si aggrapparono più forte ai sostegni. Qualcuno imprecò, altri si avvicinarono ai vetri appannati, cercando di capire il motivo dello stop. Nell’aria aleggiava un brusio—una miscela di fastidio e curiosità. La bigliettaia, raggiunta la cabina del conducente, aprì la porta e si fermò, come se avesse inciampato in qualcosa che non apparteneva a quella grigia mattina milanese.

Fuori, vicino al parabrezza, c’era una donna in un giubbotto rosso consumato. In una mano, un guinzaglio; nell’altra, un ombrello con un’asta storta. All’altro capo del guinzaglio, un cane enorme, con il pelo arruffato e il muso basso. Era seduto davanti all’autobus, immobile come una statua. Le zampe sembravano conficcate nell’asfalto, le orecchie schiacciate, lo sguardo fisso a terra. Né aggressività, né paura—solo una testarda, pesante fermezza, come se portasse un peso che nessuna parola poteva spiegare.

“Non vuole muoversi,” disse la donna, la voce tremante per lo smarrimento. “Camminavamo, e all’improvviso si è seduto. Fine. Ho tirato, l’ho chiamato… niente.”

Il conducente scese, osservò il cane, poi la donna, poi di nuovo il cane. Si accovacciò, guardandolo negli occhi:

“Che hai, fratello? Sei stanco? O la vita ti ha schiacciato?”

Lentamente, il cane sollevò il muso. Nei suoi occhi c’era una tale malinconia umana da stringere il cuore a chiunque lo osservasse. Non abbaiò, non ringhiò—solo fissò, come se volesse raccontare un’intera esistenza, ma non trovasse le parole. Non era solo stanchezza. Era dolore, sordo come un’eco in una casa vuota. Il conducente si rialzò, come se avesse ricevuto una risposta in quel silenzio.

L’autobus ripartì dopo qualche minuto. La donna, borbottando un grazie, portò via il cane. Lui camminava lento, incerto, come se ogni passo fosse faticoso, ma avanzava comunque.

In quel momento, Matteo, seduto vicino al finestrino, sussurrò tra sé: “Eccomi. Anch’io mi sono fermato. E non riesco ad andare avanti.” Le parole gli sfuggirono piano, quasi da sole, come una confessione rimasta troppo a lungo imprigionata dentro.

Scese alla fermata successiva, anche se la sua destinazione era ancora lontana. Camminava senza meta, per inerzia, come se avesse dimenticato dove stesse andando. Il vento gli sferzava il volto, si infilava sotto il colletto, ma Matteo non lo sentiva. Attraversò un giardino innevato, oltre alberi spogli e una piccola area giochi dove le altalene cigolavano al vento come vecchi ricordi.

A casa non voleva andarci. Lì regnava un vuoto che gli rimbombava nelle orecchie. Non solo l’assenza di persone—l’aria nell’appartamento era morta, intatta da voci o movimento. Solo il frigorifero vecchio rombava in un angolo, ricordandogli che la vita andava avanti, anche se lui era appena un’ombra.

Matteo aveva quarantatré anni. Ingegnere, affidabile, invisibile come una vite in un meccanismo. Uno di quelli che non urla, non pretende, semplicemente fa ciò che deve. Né eroe, né vittima—solo un uomo. Diciassette anni di matrimonio, due figli, un mutuo, le vacanze dalla suocera in campagna. E poi—lo schianto. Tutto era crollato. La moglie se n’era andata. Aveva detto che soffocava. Che lui era come un fantasma: sempre presente, ma già morto dentro. Se n’era andata senza drammi, ma con una fermezza che non lasciava spazio a domande.

Non aveva discusso. Non aveva implorato. Era salito in macchina ed era andato fuori città, nel bosco. Aveva aspettato l’alba, ascoltando il vento ululare tra i rami. Era tornato. Aveva iniziato a tacere più spesso. Viveva per abitudine: lavoro, bollette, i figli nei weekend, compleanni, biglietti del cinema. Tutto normale. Eppure, dentro—il vuoto, come in una casa abbandonata.

Ma ogni giorno qualcosa si stringeva più forte nel suo petto. Come un cerchio d’acciaio che si chiudeva lentamente. Prima appena percettibile, poi sempre più forte, fino al dolore. A volte si accorgeva di respirare a fatica, come se l’aria fosse diventata pesante, estranea.

E ora camminava—come quel cane. Si era fermato. Non poteva più andare avanti. Non per dolore, non per paura, ma per la mancanza di senso. La stessa strada, le stesse facce, lo stesso silenzio la sera. Non cercava un cambiamento—solo una pausa, per smettere di essere sé stesso, anche solo per un attimo.

Nel giardino, si sedette su una panchina. Odorava di terra bagnata, aghi di pino e qualcosa di lontano, quasi dimenticato—forse l’infanzia, forse l’inverno. Passò un ragazzo con una cassa che sparava una canzone strappacuore—raschiata, ma familiare. Poi una coppia anziana: la donna sosteneva l’uomo, e nei loro passi lenti c’era tanto affetto che Matteo distolse lo sguardo.

Li guardò e pensò: “Tutti hanno qualcuno, qualcosa. Io non ho niente. E non fa nemmeno male. Come se non ci fosse mai stato niente.” I pensieri scorrevano tranquilli, senza amarezza, come una sentenza già accettata.

“Scusi,” improvvisamente una voce. “Ha un telefono? Il mio è scarico, devo chiamare mia sorella.”

Davanti a lui c’era una ragazzina di undici anni. Giacca macchiata, lentiggini sulle guance, uno zaino logoro in mano.

“Certo,” le porse il telefono.

Lei si allontanò, parlò veloce al telefono e tornò.

“Grazie. Lei perché è qui da solo?”

“Riposo,” rispose, senza sapere perché si giustificava.

“Mh. Sembra… triste. Il mio vicino fa così quando la ragazza di Bologna non gli risponde. È innamorato, ma non parla. Lei invece di chi è innamorato?”

Matteo si bloccò. La domanda lo colpì come un fulmine—imprevista, ma precisa. Nel petto, una fitta, come se il cuore si fosse ricordato di essere ancora vivo.

“Di nessuno. Tu perché sei qui da sola?”

“Non sono sola. La nonna è laggiù, si è addormentata sulla panchina. Sono andata a comprare il pane. Non sia triste, ok? La mamma dice che se qualcuno sta seduto in silenzio, è perché sta sistemando qualcosa dentro di sé. Lei sta sistemando?”

Annuì, quasi senza volerlo.

“Sto sistemando.”

“Allora andrà tutto bene. Ciao!”

Corse via, leggera come una scintilla, lo zaino che saltellava dietro di lei come un piccolo faro. Matteo rimase lì. E improvvisamente sentì qualcosa allentarsi nel petto. Come se qualcosa si fosse mosso—non tutto, ma qualcosa di importante, come un ingranaggio che finalmente trova il suo posto.

Si alzò. Si stirò. Respirò più profondamente del solito. E si mise a camminare—senza fretta, ma con più fermezza, come se ogni passo avesse ritrovato un significato. Il vento gli sferzava ancora il collo, ma non sembrava più un nemico.

Non era successE mentre il sole iniziava a tingere il cielo di rosa, Matteo capì che a volte basta un attimo per ricordarsi di respirare.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

13 − eleven =

Solo la vita