Solo vita

**Diario personale**

L’autobus si fermò nel bel mezzo di una via trafficata, e i passeggeri non fecero altro che stringere con più forza le maniglie. Qualcuno imprecò, altri si avvicinarono ai vetri appannati per scorgere la causa dell’arresto. Nell’aria rimase sospeso un brusio, un misto di fastidio e curiosità. La bigliettaia, raggiunta la cabina dell’autista, aprì la porta e si bloccò, come se avesse incontrato qualcosa che non apparteneva alla grigia e umida mattina milanese.

Fuori, una donna in un giubbotto rosso consumato teneva in una mano un guinzaglio e nell’altra un ombrello con una stecca piegata. Al guinzaglio, un cane enorme, con il pelo arruffato e il muso basso, sedeva immobile davanti all’autobus, come se fosse stato scolpito nella pietra. Le zampe sembravano radicate all’asfalto, le orecchie schiacciate, lo sguardo fisso a terra. Niente rabbia, neanche paura—solo una pesante, testarda fermezza, come se portasse un peso che nessuna parola avrebbe potuto spiegare.

“Non vuole muoversi,” disse la donna, la voce tremante per lo sconcerto. “Camminavamo, e all’improvviso si è seduto. Punto. Ho provato a tirarlo, a chiamarlo—niente.”

L’autista scese, osservò il cane, poi la donna, e infine di nuovo il cane. Si accovacciò, cercando di incontrare il suo sguardo:

“Che succede, amico? Sei stanco? O la vita ti schiaccia?”

Lentamente, il cane sollevò il muso. Nei suoi occhi c’era una malinconia così umana che a tutti, intorno, si strinse il petto. Non abbaiò, non ringhiò—si limitava a fissare, come se volesse raccontare un’intera esistenza ma non trovasse le parole. Non era semplice stanchezza. Era dolore, sordo come un’eco in una casa vuota. L’autista si rialzò, quasi avesse accettato quella risposta silenziosa.

L’autobus ripartì dopo qualche minuto. La donna, mormorando un grazie, portò via il cane. Lui camminava lentamente, insicuro, come se ogni zanna fosse straniera, ma comunque si muoveva.

In quel momento, Luca, seduto vicino al finestrino, sussurrò tra sé: “Eccomi. Anch’io mi sono fermato. E non riesco ad andare avanti.” Le parole gli scapparono piano, quasi da sole, come una confessione rimasta dentro troppo a lungo.

Scese alla fermata successiva, anche se mancava ancora un pezzo alla sua destinazione. Camminava senza meta, per inerzia, come se avesse dimenticato dove stesse andando. Il vento gli sferzava il viso, si infilava sotto il colletto, ma Luca non lo sentiva. Attraversò un giardino innevato, passò accanto ad alberi spogli e a uno scivolo dove le altalene cigolavano al vento come vecchi ricordi.

A casa non voleva andare. Lì c’era un vuoto che rimbombava nelle orecchie. Non solo assenza di persone—l’aria stessa era morta, mai disturbata da voci o movimenti. Solo il frigorifero ronza in un angolo, a ricordargli che la vita andava avanti, anche se lui a malapena c’era.

Luca aveva quarantatré anni. Ingegnere, affidabile, invisibile come una vite in un meccanismo. Uno di quelli che non urla, non pretende, ma fa semplicemente ciò che deve. Non un eroe, né una vittima—solo un uomo. Diciassette anni di matrimonio, due figli, un mutuo, le vacanze dalla suocera in campagna. Poi—un crac. Tutto crollato. La moglie se n’era andata. Disse che soffocava. Disse che lui era come un fantasma: sempre lì, ma senza vita. Se ne andò senza litigi, ma con una determinazione che non lasciò dubbi.

Lui non aveva discusso. Non aveva supplicato. Era salito in macchina ed era partito, diretto al bosco. Aveva aspettato l’alba, ascoltando il vento e lo scricchiolio dei rami. Poi era tornato. Aveva iniziato a tacere di più. Vissuto per abitudine: lavoro, bollette, i figli nei weekend, compleanni, biglietti per il cinema. Tutto normale. Solo che dentro—un vuoto, come in una casa abbandonata.

Con ogni giorno che passava, però, qualcosa nel petto si stringeva più forte. Come un cerchio d’acciaio che si chiudeva sempre di più. All’inizio quasi impercettibile, poi fino a fargli male, fino a farlo scricchiolare. A volte si accorgeva di respirare a fatica, come se l’aria fosse diventata pesante, estranea.

E ora camminava—come quel cane. Si era fermato. Non poteva andare oltre. Non per dolore, non per paura, ma per inutilità. La stessa strada, le stesse facce, lo stesso silenzio la sera. Non voleva cambiamenti, solo una pausa—per smettere di essere sé stesso, fosse anche per un attimo.

Nel giardino, si sedette su una panchina. Odorava di terra bagnata, aghi di pino e qualcosa di lontano, quasi dimenticato—forse l’infanzia, forse l’inverno. Un ragazzo gli passò accanto con una cassa che diffondeva una canzone strappacuore—rauca, ma familiare. Poi una coppia anziana: la donna sosteneva l’uomo, e nei loro passi lenti c’era tanto affetto che Luca distolse lo sguardo.

Li guardò e pensò: “Tutti hanno qualcuno, qualcosa. Io non ho nulla. E non fa neanche male. Come se non ci fosse mai stato niente.” I pensieri fluivano senza amarezza, come una sentenza già accettata.

“Scusi,” una vocina improvvisa. “Ha un telefono? Il mio è scarico, devo chiamare mia sorella.”

Davanti a lui c’era una ragazzina di undici anni. Giacca macchiata, lentiggini sulle guance, sulle spalle uno zaino invecchiato.

“Certo,” le passò il telefono.

Lei si allontanò, parlò in fretta e tornò indietro.

“Grazie. Ma lei si siede sempre qui da solo?”

“Riposo,” rispose, senza sapere perché si giustificasse.

“Ah. Solo che sembra… triste. Il mio vicino fa così quando la ragazza di Bologna non gli risponde. È innamorato, ma non parla. E lei di chi è innamorato?”

Luca si irrigidì. La domanda lo colpì come un fulmine—improvvisa, ma precisa. Nel petto, una stretta, come se il cuore avesse ricordato di essere ancora vivo.

“Di nessuno. E tu perché giri da sola?”

“Non sono sola. La nonna è lì sulla panchina, sonnecchia. Sono andata a comprare il pane. Non sia triste, eh? La mamma dice: se uno sta seduto in silenzio, è perché dentro sta rimettendo tutto a posto. Lei sta rimettendo a posto?”

Annui, quasi senza volerlo.

“Sto rimettendo a posto.”

“Allora andrà tutto bene. Ciao!”

Scappò via, leggera come una scintilla, lo zaino che le saltellava dietro come un piccolo faro. Luca rimase lì. E all’improvviso sentì che nel petto c’era un po’ più di spazio. Come se qualcosa si fosse mosso—non tutto, ma qualcosa di importante, come un’ingranaggio che finalmente trovava la sua posizione.

Si alzò. Si stirò. Respirò più profondamente del solito. E si rimise in cammino—senza fretta, ma con passo più fermo, come se ogniCamminò verso casa, e per la prima volta in mesi, il freddo gli sembrò meno pungente.

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