Oggi è un giorno che mi spezza il cuore. Mi chiamo Valeria Rossi, e mio figlio Matteo è stato sempre la mia ragione di vivere. Dopo la scuola, abbiamo vissuto insieme a Bologna, solo noi due. Cercavo di non intromettermi nella sua vita sentimentale, anche se spesso portava a casa ragazze diverse. Un paio di volte sembrava che si stesse per arrivare al matrimonio, ma qualcosa andava sempre storto.
Matteo sognava una famiglia unita, ma evidentemente non tutte le sue ragazze la pensavano così. L’ultima gli ha detto in faccia: «Non vivrò con un mammone». Mi ha ferito profondamente sentirlo—io non mi sono mai intromessa, non ho mai imposto la mia opinione. Eppure, la mia semplice presenza era già un problema per lei.
Capii che, finché fossimo vissuti insieme, Matteo non avrebbe mai potuto costruirsi una vita sua. E così presi la decisione più difficile: tornai al paese, nella casa dei miei genitori, per lasciargli spazio. Passò un anno. In quel tempo, lui si sposò e presto sarebbe diventato padre—il bambino sarebbe nato a fine gennaio. In tutto quel periodo, non mi invitò mai, ma non mi offesi. Pensai: «I giovani sposi hanno bisogno del loro spazio».
Arrivò dicembre, e con esso il Natale. Decisi di andare da loro in anticipo, per aiutare. Portai dolci fatti in casa, marmellata, una coperta che avevo lavorato a maglia, e regali. Speravo che saremmo insieme per la Vigilia, che sarei rimasta una settimana—giusto per dare una mano con le faccende, cucinare, dare supporto. Sono una madre, e sono sempre lì quando serve.
Ma quello che accadde mi segnò per sempre. Matteo aprì la porta e, senza nemmeno salutarmi, disse: «Mamma, avresti potuto chiamare… Non c’è posto. Sta per arrivare la signora Bianchi, la mamma di Giulia. Abbiamo già organizzato tutto con lei. Mi dispiace, ma non puoi restare». Non mi fece neanche entrare; sembrava un estraneo, come se fossi un’ospite sgradita.
Alla fine riuscii a entrare, bevemmo un caffè in cucina. Lui faceva finta che tutto fosse normale, ma controllava l’orologio ogni cinque minuti. Capii tutto. Non mi aspettava. Non mi voleva lì. Non si preoccupò nemmeno di nascondere la sua irritazione.
Poi mi accompagnò alla fermata dell’autobus, quello delle undici di sera. Alla Vigilia di Natale. Quella notte piansi come non avevo mai pianto nemmeno quando seppellii mio marito. Perché sentivo di essere stata cancellata dalla sua vita. Non servivo più. Non avevo più un posto.
È passata una settimana. Nessuna chiamata. Nessun messaggio. Niente scuse. Come se non fossi mai andata. Come se non esistessi. Eppure, ho dedicato tutta la mia vita a lui. Ho lavorato due lavori per farlo studiare, ho vissuto con poco pur di garantirgli ogni possibilità. E ora non merito nemmeno un semplice «grazie» o il diritto di passare le feste con la mia famiglia.
Non so cosa ho fatto per meritarmi questo. L’amore di una madre non vale più niente? Dopo aver dato tutto, devo tornare a casa con il cuore spezzato e la sensazione di non servire più a nulla?…