Sono trascorse solo tre settimane da quando abbiamo seppellito mia madre e già mio fratello ha convocato il perito per la casa.

Erano appena passate tre settimane da quando avevamo sepolto mamma, e mio fratello aveva già chiamato un perito per valutare la casa. Nel cortile della casa di famiglia a Bolzano, le mele cadevano una dopo laltra, sbattendo al suolo con un tonfo sordo. La casa, una vecchia costruzione degli anni ’70 con due stanze e una veranda in legno, sembrava essersi rimpicciolita da quando eravamo bambini. Ma il terreno di quasi mille metri quadrati era improvvisamente diventato la moneta di scambio più preziosa tra me e mio fratello, Marco.

“Andreina, dobbiamo essere pratici,” mi aveva detto al telefono il giorno prima. “Tu vivi a Milano, io a Roma. Nessuno dei due può trasferirsi qui. Ha senso tenere questa casa vuota? Meglio venderla e dividere i soldi.”

La sua logica era impeccabile, fredda ed efficiente, proprio come Marco era sempre stato. La vendita sarebbe stata la soluzione razionale. Ma come si può mettere un prezzo sul luogo dove hai imparato a camminare, dove hai piantato il tuo primo albero, dove i tuoi genitori hanno vissuto unintera vita?

Ero seduta al tavolo della cucina, quello coperto con la tovaglia di cotone fiorita sbiadita dal tempo, e sfogliavo un vecchio album di fotografie. Papà, scomparso cinque anni prima, sorrideva sotto i suoi folti baffi in una foto dellestate dell89. Accanto a lui, mamma reggeva un cesto di prugne e sembrava più giovane di quanto io fossi mai stata.

Il telefono vibrò. Era Marco.
“Ho parlato con un agente immobiliare. Dice che possiamo chiedere 200.000 euro per la casa e il terreno. È una buona somma, Andreina. Pensa a cosa potresti fare con la tua metà.”
“Devo pensarci, Marco. Non è una decisione facile per me.”
“Cosa cè da pensare? La casa è vuota, si sta rovinando. Né tu né io abbiamo tempo di venire a occuparcene. È irresponsabile lasciarla così.”

Aveva ragione, ovvio. La mia vita era a Milano, con mio marito, i bambini e il mio lavoro in azienda. Tornavo a Bolzano solo due o tre volte lanno, e negli ultimi tempi solo per assistere mamma quando la malattia laveva costretta a letto. Marco veniva ancora più raramente, con Roma e la sua frenetica vita da avvocato di successo sempre in primo piano.

Quella sera, accesi il fuoco nella stufa di terracotta e cominciai a sistemare le cose di mamma. I suoi vestiti semplici, ordinati perfettamente nellarmadio. Il servizio da tè in porcellana, usato solo “per le occasioni speciali”. La pila di ricette scritte a mano, conservate in una scatola di biscotti. Ogni oggetto sembrava ancora respirasse la sua presenza.

Da qualche parte, tra le sue cose, trovai una busta ingiallita. Dentro cera latto di proprietà della casa e una lettera incompiuta indirizzata a “Figli miei”. La grafia di mamma, ordinata e precisa come lei, riempiva una pagina:
“Cari figli, quando leggerete queste parole, io probabilmente non ci sarò più. Questa casa è stata la mia vita e quella di vostro padre. Qui vi abbiamo cresciuto, qui abbiamo riso e pianto, qui siamo invecchiati. Non è mai stata grande o lussuosa, ma era piena damore. So che le vostre vite sono lontane ora, e forse questa casa vi sembra solo un peso. Ma prima di decidere, vorrei che ricordaste una cosa…”

La lettera si interrompeva allimprovviso, come se mamma non avesse trovato le parole giuste o il tempo non le avesse permesso di finirla.

Il mattino dopo, Marco arrivò con la sua macchina nuova, parcheggiandola davanti al cancello. Lo osservai dalla soglia di casa, rendendomi conto di quanto sembrasse estraneo in quel posto. Il suo costoso completo non si addiceva alla semplicità del cortile dove avevamo corso scalzi da bambini.

“Ho portato i documenti per il perito,” disse invece di salutare.

Gli porsi la lettera senza dire nulla. La lesse in silenzio, la sua espressione cambiando appena.
“È incompiuta,” commentò.
“Sì, come la nostra conversazione su cosa fare della casa.”

Uscimmo in cortile, tra le mele cadute e lorto curato da mamma fino allultimo mese di vita. Il piccolo frutteto dietro casa, dove papà ci aveva costruito unaltalena, era ormai incolto.
“Ti ricordi quando litigammo sullaltalena e cademmo entrambi, rompendomi il braccio?” chiesi.
Un breve sorriso gli attraversò il volto. “E papà ci portò in ospedale in bicicletta, con te in braccio e io che pedalavo dietro, piangendo più forte di te.”

Inaspettatamente, scoppiammo a ridere entrambi, ricordando episodi dellinfanzia che avevamo completamente dimenticato. La festa a sorpresa per i cinquantanni di papà, quando la torta scivolò dal tavolo. La prima volta che Marco si ubriacò con il grappE in quel momento capimmo che la vera ricchezza non era nei soldi della vendita, ma nei ricordi che quella casa custodiva e nellamore che ci aveva unito come famiglia.

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