Sono un marito, non un mobile!

**Diario personale**

“Non sono un mobile, sono tuo marito.”

“Hai comprato di nuovo il pane sbagliato. Ti avevo detto senza semi,” disse Beatrice, appoggiando la pagnotta sul tavolo senza nemmeno guardare Luca.

“Era l’ultimo rimasto,” rispose lui con calma. “Perché ti arrabbi? È pane normale.”

“Poi a Matteo fa male la pancia. Per te è facile parlare, non sei tu a dargli le medicine di notte e a restare sveglio con lui.”

Luca chiuse gli occhi per un momento e tirò un lungo sospiro. Appoggiò la borsa della spesa vicino alla finestra e si sedette su uno sgabello, come se volesse tenersi lontano dalla famiglia. Avrebbe voluto essere più vicino, ma non riusciva.

Alla porta suonò Elena, arrivata con dei dolcetti e un sorriso. In casa di sua sorella, l’atmosfera era sempre la stessa: caotica, ma familiare, accogliente. Ed era proprio quel calore che la attirava.

“Ciao, famiglia! Tutto tranquillo qui?”

“Magari. Abbiamo quasi finito. Ora ci sono i compiti, la cena, il bagno. E poi da stirare i vestiti per domani,” rispose Beatrice, svuotando le buste. “Sono in piedi dalla mattina, non mi sono nemmeno seduta.”

“Le ginocchia non scricchiolano ancora?” sorrise Elena, togliendosi la giacca.

Luca la salutò con un cenno e andò in camera. Ormai da tempo aveva smesso di partecipare alle conversazioni femminili.

“È sempre così?” chiese Elena a bassa voce, guardando la sorella.

“Cioè?”

“Tu qui da sola, e Luca nella stanza accanto, silenzioso come un pesce.”

Beatrice scrollò le spalle, irritata.

“Non ricominciare. Abbiamo solo… una divisione dei compiti. Io mi occupo della casa e dei bambini, lui lavora. Come fanno tutti.”

“Non è quello il punto. È a casa da un’ora e mezza. Gli hai parlato almeno una volta in tutto questo tempo?”

“Scusami, non sono obbligata a preparargli una cena romantica ogni sera. Abbiamo dei figli.”

La cucina era piccola. Un tavolo stretto, sedie con cuscini logori, un tagliere sbiadito. Sul muro, un elenco di attività extrascolastiche scritte con la calligrafia ordinata di Beatrice.

“Per te i figli significano la fine della vita personale?” chiese Elena.

Beatrice alzò le spalle.

“Non voglio che abbiano… beh, ciò che abbiamo avuto noi. Ti ricordi quando la mamma ci lasciava sole per mezza giornata? E papà che beveva mentre lei lavorava? Senza parlare del disastro in casa. Avevo paura ad andare in bagno finché non ho iniziato a pulire io.”

“Lo ricordo,” annuì Elena, sospirando. “Ma ricordo anche quando ci sdraiavamo per terra a guardare i cartoni. Quand’è l’ultima volta che li hai guardati con i bambini?”

Beatrice distolse lo sguardo, imbarazzata. La risposta era ovvia.

“A loro servono inglese, matematica e nuoto, non i cartoni.”

“E a Luca non serve niente?”

Beatrice lanciò un’occhiata verso il corridoio, aggrottando la fronte.

“Lui è adulto. Non è un bambino. Può aspettare per la famiglia.”

Elena tacque. Guardò la sorella, con le occhiaie violacee e i capelli raccolti in una crocchia disordinata. Le sue mani erano un moto perpetuo: aprire, chiudere, mescolare, sistemare.

“Lo ami?” domandò all’improvviso Elena.

“Sei impazzita?! Certo che lo amo! Solo che ora non è il momento.”

“Sono più di dieci anni che ‘non è il momento’. Da quando è nato Matteo.”

Nella stanza entrò Emma, in pigiama, arruffata come un passerotto.

“Mamma, il libro di Matteo è rotto. Dice che sono stata io. Ma non l’ho toccato!”

“Ora vedo.”

Beatrice si alzò di scatto e uscì. Elena rimase sola in cucina, ma non per molto. Pochi minuti dopo arrivò Luca, come se avesse aspettato che la moglie se ne andasse per prendersi un bicchiere d’acqua.

“Sei stanco?” chiese Elena con dolcezza.

“Tutto sotto controllo. Solo che a volte penso che se sparissi, lei non se ne accorgerebbe,” confessò Luca a bassa voce.

“Se ne accorgerebbe. Ma forse troppo tardi.”

Luca scrollò le spalle, sospirò e distolse lo sguardo.

“Li amo. Ma qui mi sento come un soprammobile. Porto i soldi e poi sono libero.”

Elena non seppe cosa dire, e Luca non aspettò una risposta. Si alzò e tornò in camera.

Beatrice non fece ritorno. Rimase bloccata tra il libro rotto, i davanzali polverosi e la biancheria piegata male nell’armadio.

La mattina dopo iniziò con una litigata davanti all’armadio. Beatrice cercava, come al solito, di coprire tutti fino all’inverosimile.

“Matteo, metti quella giacca col cappuccio!”

“Mamma, mi fa caldo. Andiamo al centro commerciale, lì c’è il riscaldamento.”

“E mentre cammini per strada? Chi ti asciugherà il naso poi?”

Emma si dimenava vicino alla porta, infilando i calzini sopra gli stivali per “scivolare di meno”. Beatrice sbottò, lei sobbalzò e si rimise a scarpe. Intanto Luca era già in macchina. Aveva offerto aiuto più volte, ma la risposta era sempre la stessa: “Faccio da sola, non intralciare”.

In macchina, lui provò a parlare:

“Senti, domani potremmo uscire solo noi due? Al cinema, o al bar. Ti ricordi quando lo facevamo?”

“Domani? E i bambini con chi stanno?” La sorpresa nel tono di Beatrice si trasformò subito in fastidio. “Non possiamo lasciarli così! Sono piccoli.”

“Hanno dodici e cinque anni. Matteo può già farsi un panino.”

“Sì, e magari bruciare anche la cucina. Luca, parli sul serio? Non sanno nemmeno mettersi le scarpe.”

Al centro commerciale, i bambini cercarono di trascinare i genitori al fast food. Beatrice bloccò loro la strada con un braccio, come una sbarra.

“A casa c’è la minestra. Dagli hamburger poi viene la gastrite.”

“Mamma, ma è domenica,” sospirò Matteo. “Non lo facciamo sempre.”

“Ho detto di no. Punto. Qui non siamo in democrazia.”

Venti minuti dopo, Emma iniziò a piagnucolare per la fame. Matteo si rifiutò di provare i vestiti in negozio, e Beatrice lo sgridò così forte che lui smise di parlarle. Si chiuse ancora di più in sé stesso.

Era successo altre volte. Ma quel giorno Luca capì che non ne poteva più.

“Ma ti senti quando parli?”

“E tu?” Lei gli rivolse uno sguardo freddo. “Tu senti qualcosa, oltre ai tuoi videogiochi?”

“Ti sento comandare dalla mattina alla sera. Sempre. A tutti. Anche quando non serve.”

“Perché se non lo faccio io, tutto va a rotoli!”

“È già tutto a rotoli, Beatrice.”

Uscirono prima del previsto. Luca guidò in silenzio, Beatrice guardò fuori dal finestrino voltandogli le spalle, i bambini si misero le cuffie per non sentire. La tensione era troppo forte.

Luca non parcheggiò, si fermò solo davanti a casa. Non scese con la famiglia.

“Devi andare da qualche parte?” chiese Beatrice, stupita.

“Ho bisogno di pensare. Di stare solo. Stasera nonLuca tornò quella sera stessa, con un mazzo di fiori in mano e un sorriso incerto, mentre Beatrice, senza dire una parola, gli aprì la porta più larga del solito.

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