Sottile inganno, duro risveglio

Oggi è stato un giorno strano. Maria (mia suocera, detta “nonna” da tutti) mi ha chiamato per il suo compleanno. Era il tipo di chiamata che faceva sempre con entusiasmo, tipo “Voi non verrete solo per tre giorni, vero? Rimangiamo insieme più a lungo?” Poi, rivolgendosi a Sofia (mia moglie), ha aggiunto: “Non è da te starsene zitta come un’ombra, cara. Auguri, nonna, stai bene! Noi come al solito risolviamo i problemi e ti chiamiamo subito.” Sofia ha riagganciato in fretta e ha sospirato. Quella conversazione aveva il sapore di un dolce amaro: Maria sembrava affettuosa, come al solito, e c’era motivo per essere contenti (era il suo 60esimo), eppure Sofia non smetteva di guardare l’orologio.

Sofia non voleva andare a casa dei miei genitori per le vacanze estive. Finché io e i ragazzi non li avessimo visti almeno una volta l’anno, Maria avrebbe pregato ogni volta di non andare via. Però, a Sofia, quelle visite pesavano. Non aveva mai detto niente, no. Sapeva che per me andare a trovarli era un dovere, un impegno da sposo. “E se non ci andiamo, i bambini crederanno di non avere un’altra nonna e un nonno,” le avevo spesso ripetuto. Maria non stava mai male, era sempre in forma, e ci mandava foto truccate di Giulia (la figlia più piccola) per mostrarla alle amiche. Ma Sofia continuava a sentirsi stranera in quel mondo perfetto da mostra etera.

A un certo punto le dissi: “Sofia, tu sai, non è che i miei non ti vogliono bene. Sono grandi, abituati a vivere lontani. Se fossimo vicini, saresti tu la prima a non sopportare mai i loro progetti vacanzieri.” Poi lei replicò con un tono quasi aggraziato: “Ma non vedi che tua madre mi ha insegnato a non toccare i suoi arredi, a chiedere consenso per ogni cosa? Come ho potuto starti accanto per dieci anni senza ribellarmi?”

Quella sera, mentre impacchettavo le valigie, si fece silenzioso. A Sofia non andava bene niente: neppure il gioco negli spazi ristretti del giardino della villetta a Bologna, né le battaglie di palline di Giulia che si infrangevano sui muri. A Maria sembrava che l’esistenza di Sofia fosse un intralcio ai suoi piani perfetti. I commenti venivano fuori con una semplicità disarmante: “Questa gambaletta ti si svela troppo”, “I bambini sono troppo rumorosi, forse Sofia non sa farli comportare bene,” o “Marco è gracile: magari Sofia non lo alimenta bene.”

Quando arrivammo, lei ci accolse con un sorriso che non arrivava agli occhi. Mi guardò con un “E allora? Che aveva detto?” Sofia sorrise a sua volta, ma con un tono finto-freddo che non avevo mai visto. Qualcosa era cambiato. Notai che aveva portato un cappotto, mentre al nostro posto avrebbe dovuto fare niente: la villetta era calda come a Napoli.

A tavola non volle mangiare con le sue regole di Maria. Presi un coltello per tagliare la pasta, e lei sbottò: “L’hai scostato! Questo coltello è solo per le verdure! Cosa ti insegnava tua nonna? Quando farai fuori la casa?” Sofia sorrise e ribatté con calma: “Forse non ti sei accorta che il gioco di Giulia non ti sta bene, ma le bambine hanno bisogno di correre. Non puoi aspettarti che si comportino come fossimo noi da piccoli. è normale.”

Era una finestra aperta per me. Per anni ho creduto che quelle reazioni fossero solo il risultato di una diversità di carattere. La famiglia è complicata, lo so. Ma quell’estate compresi un’altra verità: talvolta, amare troppo diventa un carico per gli altri. Gliiteriamo nell’amore, ma esiste un limite che non va mai superato. Non c’è carezza che possa riempire un vuoto quando l’altro non lo conosce.

Alla fine, Sofia si rifiutò di tornare là. Noi prendemmo una villetta a Sorrento, lontana da quei muri francesi e dalle regole di Maria. I bambini correvano, ridevano, non avevano la paura di sbagliare. Sofia si rilassò, e io capii che per far vivere bene qualcuno, a volte bisogna lasciarlo andare.

La lezione per me? Fair play, ma non troppo. L’amore è come un buon vino: va assaggiato con attenzione ma bevuto senza esagerare.

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