Sposata ma sola

“Caterina, ma dimmi un po’, come devo capire questa situazione?” La vicina Valeria Rossi Rossi era sulla porta, una borsa della spesa in mano, e scuoteva la testa perplessa. “Hai un marito oppure no? Ieri ho visto Lorenzo uscire dal tuo appartamento, e stamattina l’ho incontrato alla metro con una bionda!”

Caterina sospirò, posò il giornale e la invitò in cucina. L’acqua per il tè stava bollendo proprio allora. “Siediti, Valeria. Non è semplice come sembra. Sì, Lorenzo è mio marito. Ufficialmente. Il timbro sul passaporto c’è da sette anni ormai. Ma viviamo separati. Ognuno nel proprio nel appartamento.”

“Vivete separati? Ti pare una famiglia?” La vicina si lasciò cadere sulla sedia, chiaramente decisa a fare una lunga chiacchierata. “E allora perché sei veramente andata all’altare?”

Caterina le posò davanti una tazza di tè, sedendosi di fronte. Fuori pioveva una pioggia fine d’ottobre, le gocce scendevano sul vetro come lacrime. Era in un tempo così che sette anni prima erano andati in comune a dare i nomi per sposarsi.

“Sono andata all’altare per amore, è chiaro. Pensavo avremmo vissuto come ogni famiglia normale. Lavoro, figli, la casa insieme, le vacanze al mare. Neanche per sogno!” Caterina sorrise amara. “Dopo sei mesi capii che siamo persone totalmente diverse. Lui ama le compagnie rumorose, io preferisco la calma. Lui lascia le scarpe in mezzo al salotto, io adoro l’ l’ordine. Lui può stare una settimana senza lavarsi, io un giorno senza doccia no.”

“Ma allora divorziate!” fece Valeria con un gesto della mano. “Perché continuare a soffrire?”

“Ah, qui comincia la parte interessante. Non possiamo divorziare. L’appartamento è uno solo, intestato a entrambi prima ancora del matrimonio. Lo comprammo insieme, pagando metà ciascuno. Lorenzo dice: se divorziamo, dobbiamo vendere casa e dividere i soldi. Ma dove andiamo dopo? Affittare? Non siamo più giovani, io ho quarantatré anni, lui quarantacinque. Dove troviamo quei soldi per un affitto?”

Valeria annuì pensierosa. Capiva il problema.

“E cosa avete escogitato?”

“Eccolo qui. Lorenzo abita in quell’appartamento, e io ne ho comprato uno piccolo, un monolocale in periferia. Economico, ma mio. Pago il mutuo, però nessuno mi rompe le scatole. Lui mi viene a trovare qualche volta, quando gli scoccia stare a casa. Ci sediamo, chiacchieriamo, come vecchi amici. Poi se ne torna.”

“E per quanto starete ancora così?” Valeria osservava Caterina incuriosita. Sembrava stanca, ma calma.

“Non so. Per ora mi va bene. Ufficialmente siamo marito e moglie, non devo cambiare documenti, al lavoro non si fanno troppe domande. Di fatto, ognuno la sua vita.”

Quando Valeria se ne fu andata, Caterina restò a lungo alla finestra, finendo il tè ormai freddo. La pioggia si era fitta più fitta, e nel suo rumore sembravano esserci voci del passato.

Si erano conosciuti al lavoro. Lui allora era capo ufficio acquisti, lei capo contabile. Alto, ben piantato, occhi buoni e un sorriso di fascino. Caterina se ne era invaghita subito.

“Caterina, che ne diresti di un caffè in pausa pranzo?” Si era avvicinato alla sua scrivania quel giovedì memorabile. “Conosco un bar favoloso qui vicino.”

Lei accettò. Poi ci fu un secondo incontro, un terzo. Lorenzo si rivelò piacevole, leggeva molto, era esperto d’arte. Parlavano di libri, film, viaggi.

“Stare con te è così leggero,” confessò dopo un mese d’incontri. “Mi capisci prima che parli.”

Anche Caterina si sentiva a suo agio. Dal divorzio col primo marito erano passati cinque anni, e aveva quasi smesso di sperare di trovare un’anima affine.

Lorenzo era divorziato, senza figli. Viveva da solo in un appartamento di due stanze, ereditato dai genitori.

“Troppo grande per uno solo,” si lamentava. “Ma venderlo… è comunque la casa dei miei.”

Mezzo anno si frequentarono, poi Lorenzo le chiese di sposarlo. Feccero un matrimonio modesto, solo gli amici e i parenti più stretti.

I primi mesi insieme furono nella magìa dell’ innamoramento. Sembrava che tutto fosse superabile, le piccole differenze sciocchezze.

Ma a poco a poco, quelle sciocchezze diventarono problemi seri.

“Lolo, non puoi sempre lasciare i piatti sporchi nel lavandino!” Caterina si arrabbiò un’altra volta guardando la pila di stoviglie sporche.

“Suvvia, li lavo domani,” rispose lui scrollando le spalle, immerso in un telefilm.

“Domani, dopodomani…
Accarezzando Micia che andava facendo le fusa, Irene pensò che forse il vero amore era proprio questo: saper voler bene a distanza, senza possedere né essere posseduti.

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