**La Storia di Tiziana**
Tiziana e Massimo erano considerati la coppia perfetta. Entrambi belli, di successo, con i soldi in banca, ma senza figli. I medici alzavano le spalle, diagnosticando una sterilità senza appello.
Ma non persero la speranza. Andavano in chiesa, pregavano, visitavano santuari. Sentivano parlare di una vecchia guaritrice in un paesino e partivano subito. Una di loro disse che avrebbero avuto un figlio, anzi, più di uno, ma attraverso dolore e perdite. Parlò a lungo. Tiziana, felice, ascoltò distrattamente, ricordando solo una cosa: bisognava credere.
“Vivete per voi stessi, viaggiate, avete i soldi, e invece vi affannate per una tragedia. I figli sono ingrati, crescono e non vi passeranno neanche un bicchiere d’acqua da vecchi”, mormoravano alle loro spalle.
“È già vecchia, con un bouquet di acciacchi, e vuole figli. Dovrebbe pensare ai nipoti…” Ma come avrebbero potuto avere nipoti, se non avevano figli?
Una volta Tiziana disse a Massimo che poteva lasciarla, trovare una donna più giovane che gli desse un figlio, anzi, più d’uno. Lui la guardò in un modo che la fece pentire di quelle parole, e non ne parlò più.
Così vivevano. Lavoro, casa, soldi, ma per la felicità non bastava. Tiziana sapeva che sarebbe stata la madre migliore del mondo. Immaginava cullare un bambino che assomigliasse a loro, i primi passi, la scuola… A volte si convinceva: “La gente vive anche senza figli. È il mio destino. Se Dio non me li dà, significa che non li merito”. E cercava in sé i difetti per cui Dio la puniva.
Forse le preghiere funzionarono, forse l’Onnipotente ebbe pietà. Un giorno accadde il miracolo in cui avevano sempre creduto.
Tiziana non controllava più il ciclo. Quando una mattina si sentì nausea, pensò a qualcosa che aveva mangiato. Ma la nausea tornò il giorno dopo. Poi, mentre cucinava, l’odore della carne la fece rivoltare. Ma no, impossibile! Eppure comprò due test.
Spesso speriamo nel miracolo, ma quando lo vediamo, dubitiamo. Anche Tiziana stentò a credere alle due linee rosa. Aspettò Massimo con impazienza.
“Sono incinta”, esplose appena lui varcò la porta, porgendogli il test.
Si abbracciarono a lungo, finché le lacrime di gioia non si asciugarono.
Massimo non la lasciava sollevare pesi, nemmeno fare la spesa da sola. Le chiedeva sempre come stava.
“Smetti di farmi la guardia! Ci sono donne più vecchie di me che partoriscono”, si irritava Tiziana.
“Non mi importa delle altre. Ho solo te. Non voglio che ti succeda nulla, a te e al nostro bambino”, diceva lui, baciandola. “E poi, mi piace prendermi cura di voi.”
Quando la pancia si fece evidente, vicini e colleghi non risparmiarono commenti. Alcuni erano sinceri, altri no.
“Allora, avete fatto la fecondazione assistita?”
“Non partorirà, o nascerà un mostro”, sussurrò una vicina a un’altra sulla panchina. Tiziana se ne andò in fretta, accarezzandosi la pancia: “Non ascoltarli. Sarai la più bella e intelligente.” Sapeva già che sarebbe stata una femmina.
Prima evitava i reparti per bambini, ora entrava sicura, scegliendo i vestiti più belli per la piccola. A casa li dispiegava, immaginandoci dentro sua figlia. Li stringeva al viso, annusandone il profumo di negozio, ma era pur sempre la roba di sua figlia.
Al momento del parto, optarono per un cesareo nella migliore clinica, temendo sorprese. Avevano aspettato troppo per rischiare. La bambina nacque sana. Non passava giorno senza che ringraziassero il cielo per quella felicità.
Tiziana non aveva latte, comprarono i latti artificiali più costosi. Stavano ore a guardare la piccola dormire. Poi i primi dentini, le prime parole, i primi passi. Massimo le propose di non tornare a lavoro: guadagnava abbastanza.
“Niente asilo, prenderà solo malattie.”
La figlia divenne il senso della vita di Tiziana. Giorgia cresceva amata, bella e ubbidiente, senza dare problemi.
Ci si abitua in fretta alla felicità, smettendo di notarla. Giorgia era già a scuola. Una sera faceva i compiti, Massimo leggeva il giornale, Tiziana cucinava. Mancava solo tagliare le verdure per l’insalata quando si ricordò di non aver comprato la maionese.
“Massì, vado un attimo al supermercato.”
“Mmh”, borbottò lui, senza alzare gli occhi dal giornale.
Tornata, riprese a cucinare. Solo quando chiamò Giorgia per cena, si accorse che non c’era.
“Massì, dov’è Giorgia?”
“È andata da Sara un momento.”
“Da quanto?”
“Appena sei uscita.”
Tiziana guardò l’orologio: le sei e mezza. Dicono che in questi momenti una madre senta l’ansia, il presentimento. Ma Tiziana non sentì nulla. Sara abitava nel palazzo accanto. Perché preoccuparsi? Poteva andare a prenderla quando voleva.
Cenarono senza aspettarla. Poi Tiziana chiamò a casa di Sara. Rispose la madre.
“Salve, sono la mamma di Giorgia. È ora che torni.”
“Ma non è qui. Pensavamo che non l’aveste lasciata venire. Cosa è successo?”
“Come non è lì?” esclamò Tiziana, lasciando cadere il telefono.
Massimo balzò in piedi.
“Cosa?”
“Giorgia non è da Sara…”, mormorò con le labbra impietrite.
Uscirono di corsa. In autunno fa buio presto, i lampioni erano già accesi. Gridarono il suo nome, chiesero ai vicini, ma Giorgia era svanita nel nulla. Massimo chiamò la polizia.
“Non preoccupatevi, la troveremo. Tornate a casa, potrebbe riapparire”, li rassicurò un agente gentile.
Aspettarono, sobbalzando a ogni squillo. Ma Giorgia non tornò. Tiziana non dormiva, si addormentava per pochi minuti per poi svegliarsi di colpo. Le ricerche durarono giorni. Niente.
Tiziana si vietava di pensare al peggio, vivendo nella speranza. Passò un mese, poi un altro. Giorgia non riapparve. Massimo e Tiziana smisero di parlarsi, di guardarsi, per non vedere la disperazione specchiata negli occhi dell’altro.
Massimo ingrigì, si curvò come sotto un peso enorme. Lavorava fino a tardi. Forse il dolore era più facile da sopportare da soli.
Tiziana andava spesso in questura, chiedendo notizie. L’agente distoglieva lo sguardo, borbottando risposte vaghe.
Tornò a lavorare per distrarsi. All’inizio i colleghi erano discreti, evitando di parlare di figli. Ma con l’avvicinarsi del Natale, discutevano di regali, costumi, alberi. Tiziana usciva dalla stanza.
“Per colpa sua dobbiamo dimenticarci dei nostri figli?” si lamentavano alcuni.
A casa, Tiziana si sfogava con Massimo.
“È colpa tua. Perché l’hai lasciata andare? Se non fosse stato per te, sarebbe ancora qui!”
Lui capiva che parlava il dolore, taceva. Bevve di più. Una volta, schiacciato dal senso di colpa, and