Suocera ci cacciò di casa con i bambini, ora torna con le valigie chiedendo ospitalità.

Si dice che nella vecchiaia tutti raccolgono i frutti della loro vita. C’è chi riceve amore e calore dai propri cari, e chi invece sente solo la corrente d’aria della porta che si chiude in faccia. Mia suocera, Rosaria Lombardi, non è mai stata una donna affettuosa. Si è sempre comportata con rigidità, come se tutti le dovessero qualcosa. Soprattutto suo figlio unico. E, senza dubbio, io, “quella ragazza che ha portato via il figlio da sua madre”.

Anni fa, quando ero in maternità con il secondo figlio e mio marito aveva perso il lavoro, non riuscivamo più a pagare il mutuo. Chiedemmo a Rosaria di vivere con lei, nella sua ampia trilocale a Firenze, ereditata da suo padre. All’epoca, vivevano già lì lei e suo figlio minore, Luca, oltre a noi due e i nostri due bambini piccoli. Speravamo fosse una soluzione temporanea, ma tutto diventò rapidamente un inferno.

Rosaria non perdeva mai l’occasione di criticare. I bambini la disturbavano, puzzavano in modo sbagliato. I giocattoli sul divano la facevano infuriare. Il cibo per il neonato lo chiamava “quella brodaglia puzzolente” che le invadeva il frigo. Io cercavo di tacere, di sopportare, per non peggiorare la situazione. Ma un giorno mi disse chiaramente:

— Basta, mi avete stancata. Preparate le valigie e andatevene. Non posso più vivere in questo caos.

Ci sentimmo umiliati. Non avevamo quasi soldi dopo la vendita della vecchia casa e il pagamento dei debiti. Con fatica, riuscimmo a comprare un piccolo casolare vicino a Siena, senza acqua corrente né bagno interno. L’unico comfort era una latrina in fondo al giardino, e l’acqua la prendevamo dal pozzo.

Piano piano, mattone dopo mattone, ricostruimmo la nostra vita. Usammo gli assegni familiari, poi chiedemmo un altro prestito. Dopo dieci anni, finalmente entrammo nella nostra nuova casa. Non un palazzo, ma con doccia, riscaldamento e una cucina moderna. Proprio quando sembrava finito il peggio, e stavamo persino pensando a un terzo figlio, il destino bussò di nuovo alla porta. O meglio, lo fece Rosaria.

Sentii il cancello aprirsi. Sulla soglia c’era mia suocera, con un cappotto pesante, una valigia e il volto gonfio di pianto. Quando mio marito aprì, gli cadde tra le braccia, singhiozzando come se tornasse non in una casa, ma alla salvezza.

La accogliemmo, la facemmo sedere. Mio marito chiamò suo fratello, ma senza risultati. Rosaria riprese fiato solo verso sera.

Scoprimmo che, dopo la nostra partenza, aveva cercato di “rieducare” Luca. Gli sussurrava che suo fratello maggiore era un traditore e che io avevo rovinato la famiglia. Alla fine, anche Luca si sposò e la lasciò. Ma non per lungo tempo. La prese a vivere con sé e sua moglie. All’inizio, fu silenzio. Poi nacque il loro bambino, e Rosaria ricominciò con le vecchie lamentele: gli odori, il rumore, la minestra sbagliata. Peccato che la nuora non fosse come me: non aveva intenzione di sopportare.

A poco a poco, la spinsero fuori dalla sua stanza, sul divano. Poi, con varie scuse, la estromisero del tutto. La camera divenne quella dei bambini. Il posto a tavola fu preso da altri, e alle sue proteste le rispondevano: “Se non ti va bene, fai le valigie e vattene”.

— Perché non vai a stare da Marco? — le disse Luca una sera a cena. Lo stesso che anni prima l’aveva aiutata a cacciarci via.

Così la prepararono in fretta. Valigia in mano, taxi per la stazione, biglietto pronto. Prima che salisse sul treno, Luca aggiunse:

— Non ti cancelleremo dalla residenza. Continua pure a prendere la pensione di Roma. Ma vivi dove vuoi, purché non da noi.

Non potevamo rifiutarle un posto. A casa nostra c’è spazio. Per ora, sta zitta. Nessun rimprovero, nessuna lamentela. Ci guarda, soprattutto i bambini, con una malinconia silenziosa e tardiva.

Forse la vecchiaia addolcisce davvero le persone. O forse è solo paura di rimanere soli. Comunque sia, io per ora taccio. Ma una cosa la so: non caccerò via nessuno. Neanche lei. Neanche colei che un giorno ci cancellò dalla sua vita.

La vita insegna che il modo in cui trattiamo gli altri, prima o poi, ci torna indietro. E a volte, l’unico rifugio è proprio nelle mani di chi abbiamo ferito.

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